Il  Mito nel  Mito

                                                                                                                                           

       

La possibilità di discriminare, nell'ambito della personificazione rappresentata dall'Anima, i tratti della madre da quelli pertinenti alla donna amata, o in generale alla donna, costituisce quindi la prerogativa che differenzia l'individuo capace d'un rapporto dinamico da colui che, al contrario, rimane vittima della fissazione agli aspetti materni, inevitabilmente inficianti ogni rapporto con la donna.

La trattazione specifica intorno all'archetipo della madre (Gli aspetti psicologici dell'archetipo della Madre), posteriore di poco al ricordato saggio sull'Anima, apparve nel 1939 a Zurigo negli "Eranos-Jahrbùcher": essa rappresentava il testo d'una conferenza tenuta nel 1938, ad Ascona, col titolo Die psychologischen Aspekte des Mutter-Archetypus. Sottoposta, come ogni scritto junghiano, a ulteriore revisione, fu poi ripubblicata nel 1954 nel volume collettaneo Von den Wurzeln des Bewusstseins. Studien uber den Archetypus, appartenente alla collana delle "Psychologische Abhandlungen" (vol. 9). La destinazione dell'opera oltre che la chiarezza espositiva di Jung pongono in evidenza una perspicua partizione, che rende accessibile l'argomento anche a lettori non specializzati, pur senza evitare il riferimento a nodi concettuali di elevata difficoltà. La parte iniziale è dedicata all'illustrazione del concetto di archetipo, sia in senso generale, sia in senso particolare.
Sul piano metodologico Jung distingue la nozione di archetipo, intesa in chiave psicologica, dalle nozioni affini, teorizzate in campo filosofico a partire da Platone e in campo etnopsicologico dal noto studioso tedesco Adolf Bastian e dai seguaci del sociologo e filosofo Emil Durlcheim, Henri Hubert e Marcel Mauss, che avanzarono, rispettivamente, il primo l'ipotesi di "pensieri elementari", i secondi di "categorie" della fantasia universalmente riscontrabili. Disponendo la propria disciplina nell'ambito evolutivo del pensiero europeo, Jung pone al centro della propria trattazione il concetto di archetipo, quale premessa istintuale esprimente si in immagini di tonalità numinosa in ogni singola esistenza. Di tale premessa Jung si fa, nell'esemplificazione concreta del saggio, osservatore attento e volto a cogliere, con aderenza alla fenomeno-logia, la varietà registrabile nell'esperienza.
Per Jung l'archetipo della madre, al pari dell'archetipo dell'Anima, investe una pluralità di aspetti, estesi all'ambito rituale, alla mitologia, alle religioni, alla filosofia, al mondo naturale e animale, alla civiltà umana e alle sue strutture fondamentali, quali, ad esempio, luoghi dotati di significato universalmente valido e ricorrenti in ambienti e società diverse. Cosi, in una rapida ma intensa sintesi, egli indica al lettore la comune origine archetipica di simboli mitici, come ad esempio Demetra e Core, di "luoghi di nascita o pro-creazione", di oggetti dotati di alta valenza simbolica, come il forno e la pentola. Ogni aspetto risulta depo-sitario d'una perenne ambivalenza pertinente alla madre, esperibile,come Jung aveva già rilevato nei Simboli della trasformazione, come "madre amorosa" e "madre terrificante". Una bipolarità dialettica, questa, che contraddistingue la rappresentazione di Maria nelle allegorie medievali cristiane, e che trova corrispondenza nella triplice valenza del principio materno della materia nella filosofia orientale. L'esposizione delle caratteristiche generali dell'archetipo della madre mira a porre in primo piano l'incidenza della dimensione collettiva della madre, senza peraltro escludere l'importanza, nella prassi psicoterapeutica, dei fattori personali. "Gli effetti etiologici o traumatici della madre,scrive Jung, devono essere distinti in due gruppi: quelli che corrispondono a tratti del carattere o atteggiamenti realmente presenti nella madre personale; quelli che si riferiscono a caratteristiche che essa possiede solo in apparenza, laddove si tratta di proiezioni di carattere fantastico (vale a dire archetipico) di cui è autore il bambino". Cosi, nella concezione Junghiana, i contenuti delle fantasie anormali e delle fobie infantili, in cui la madre appare "sotto forma di animale, strega, spettro, orchessa, ermafrodito" vengono ricondotti a potenzialità immaginative anteriori al rapporto con la madre. Unitamente alla descrizione dell'archetipo della madre, Jung introduce quella del complesso, riprendendo un termine già presente nella psicopatologia dell'Ottocento, ma da lui utilizzato in modo nuovo e diverso: dopo gli esperimenti associativi compiuti nel laboratorio psicopatologico dell'ospedale cantonale Burghòlzli dal 1905 al 1906, Jung aveva designato l'emergere di particolari nuclei psichici, dotati di "tonalità affettiva", come "complessi", indicando così il dinamismo psichico inconscio, relativamente accessibile alla sfera conscia, connesso comunque a una realtà psichica ancora più profonda, quella archetipica. In tale luce va colta e seguita la parte centrale del saggio, che consiste in  un'accurata descrizione del complesso materno. Jung distingue il complesso materno del figlio dal complesso materno della figlia ed esplora sia gli aspetti positivi, sia quelli negativi del complesso materno. Questa struttura, dotata d'intrinseca coerenza, vale per il saggio sull'archetipo della madre, ma al tempo stesso si pone come parallela alla trattazione degli aspetti del complesso paterno nel figlio, oggetto d'indagine nello studio sull'Importanza del padre nel destino dell'individuo (1909/1949) e nei Simboli della trasformazione (1912/1952).

 

                                Il mito della Madre ( la Grande Madre nel mito di Scilla)

  1. Il mito e l'arte

II mito di Scilla era una costruzione immaginaria, un’invenzione, una narrazione che esprimeva emozioni e sentimenti. La sua storia voleva meravigliare chi stava ad ascoltarla, era un racconto avvincente nel quale gli uomini si confondevano con gli dei. Il mostro metà donna e metà animale era una creazione letteraria, scaturita per il puro piacere del narrare, indipendente dai dati empirici, priva di ogni fine pratico nei confronti della natura e della società. Il mito di Scilla, oltre ad insegnare regole morali e religiose, a raccontare fatti accaduti e a spiegare fenomeni naturali, era anche una creazione artistica, il risultato d’impulsi emotivi. La narrazione aveva un carattere inoffensivo, era il gusto di riportare sulla terra delle storie fantastiche, ma dotate di una grande seduzione allo scopo di creare un incantesimo. Il piacere consisteva nel rappresentare storie scandalose d’esseri divini, biasimate o amate dal mondo degli uomini.

Seneca scriveva a Lucilie: Attendo lettere da te, le quali mi dicano che cosa hai appreso di nuovo girando per tutta la Sicilia, e quali notizie intorno a Cariddi sono più esatte. Giacché a riguardo corrisponde a quanto si racconta , risulta deludente nella realtà: il rapporto tra fantasia e realtà concreta è il medesimo che tra poesia e prosa; la poesia penserà sempre il proprio oggetto imponente e aperto, la prosa tenderà ad espanderlo in larghezza (1).

Chi e per quali ragioni scrivevano le "fanfaluche" su Scilla e Cariddi? (2). Le storie d’Omero, Virgilio e Ovidio esprimevano cultura e punti di vista dei semplici, riflettevano aspetti di una religiosità e di una coscienza del mondo proprie del popolo? La documentazione non sempre ci aiuta a sbrogliare il bandolo della matassa, ma la rigida contrapposizione tra la cultura colta statica, sempre tesa a salvaguardare i principi, e la cultura popolare dinamica, sempre aperta al nuovo, lascia perplessi. Il modo di pensare e di sentire dei poeti era legato allo spirito del popolo, anche senza averne coscienza essi si richiamavano ad un'esperienza folklorica plurisecolare. Le due diverse culture non possono essere considerate isolatamente, ma solo in una reciproca correlazione, nel profondo intrecciarsi dell'una con l'altra.

Non bisogna però nascondersi dietro parole come "inconscio collettivo" o "immaginario collettivo" per spiegare la cultura di uomo. L'individuo spesso si confonde con la massa, ma non per questo la sua psicologia è quella della massa. Gli artisti vivevano in un rapporto dialettico con la sua gente, ognuno di loro aveva la propria percezione della realtà, fronteggiava in modo diverso i pericoli reali e immaginari, operava interpretazioni personali di miti e credenze. L'esperienza di questi scrittori partiva dalla società ma andava anche oltre essa. Il loro mito rappresentava tradizioni, abitudini, mentalità e prassi consolidate della comunità, raccoglieva elementi culturali del presente e del passato, ma si differenziava dal modo di vivere corrente. Gli artisti proponevano un abbandono dei valori della tradizione, trascendevano a loro modo la vita, offrivano nuovi modelli di comportamento. Il mito si tramanda da generazione in generazione ma la tradizione non è una ripetizione statica, è un'interpretazione in cui è prevista la variazione (3); le informazioni orali vengono rielaborate dalla coscienza folklorica e adeguate alle idee esistenti.

  Gli artisti hanno tutelato il mito a loro modo, affidandosi alla creatività, rappresentando e tramandando solo ciò che per loro era importante, le loro opere non riproducono mai fedelmente l'idea originaria, il sovrapporsi di immagini della memoria non è garanzia di fedeltà (4). I poeti non erano raccoglitori di storie e leggende, non proponevano pedissequamente l'immagine che gli uomini semplici avevano del mostro, ma quella che apparteneva alla propria cultura. Un certo tipo di meraviglioso e di fantastico, che è stato attribuito al popolo, appartiene forse più alla cultura dei colti. I loro racconti venivano adeguati al livello di comprensione del volgo, tenevano conto dei suoi gusti, delle esigenze e degli orientamenti spirituali, ma il messaggio che contenevano non era quello del popolo (5). I racconti del mostro a volte venivano mutuati dal mondo folkorico ma i poeti li elaboravano e li adeguavano al meraviglioso della loro cultura. Le storie sui mostri erano rivolte a gente che sapeva leggere e scrivere, la quale doveva poi diffonderne il contenuto attraverso rappresentazioni e racconti. Chi le esprimeva, nascondeva le preoccupazioni proprie del suo tempo e della sua condizione sociale. Apparentemente esse sembravano riproporre una certa immobilità del mito, ma in realtà ogni scrittore, di solito senza contraddire quello precedente, apportava un proprio personale contributo. Gli autori, nonostante volessero far credere di non avere né inventato né aggiunto nulla rispetto alla storia "veritiera", in realtà proponevano modifiche. La storia del mostro non era sempre uguale e gli scritti su di esso non si riproducevano mai senza sostanziali variazioni da un secolo all'altro.

Non conosciamo ovviamente le ragioni intime che spingevano i singoli artisti a scrivere su Scilla. Forse plasmavano le storie allo scopo di divertire o impressionare il pubblico perché era il loro mestiere. Probabilmente, come afferma Otto Rank, lo facevano per problemi inconsci, per liberare desideri insoddisfatti o conflitti psichici profondi (6). Gli impulsi della vita pulsionale primitiva, privati della reale possibilità di soddisfacimento e in seguito allo svilupparsi dei processi di rimozione, dalla coscienza individuale passano ad una liberazione mistica religiosa o finiscono per rifugiarsi nella produzione poetica. La poesia e la creazione artistica appagano questo conflitto psichico causato dal contrasto tra i desideri inconsci e i condizionamenti della civiltà (7). Probabilmente Stilla è un essere immaginario, effetto della fantasia umana, un orizzonte onirico compensativo delle paure, dei desideri e delle angosce. Certamente il mito di Stilla era frutto della poesia, poiché quello stesso luogo era poetico, magico e meraviglioso. Scrive Pascoli: Questo mare è pieno di voci e questo deh è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, ed in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte. Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine; e qui si fondono formando nella serenità del mattino un immenso bagno di purissimi metalli scintillanti nel liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della sera, immagine di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle conchiglie. E' un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare, sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell'aurora, sotto le porpore iridescenti dell'occaso, è appiattata, dicono, la morte; non quella, per dir così, che coglie dalle piante umane ora il fiore ora il frutto,lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma quella che secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che sradica; non quella che lascia dietro sé lacrime, ma quella cui segue l'oblio.
Tale potenza nascosta, donde s’ irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l'orma nel cielo, come l'eco del mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia
(8). E Marcone: Ma se ciò non è vero, è senz'altro sublime e degno dello stretto, dove l'aria stessa è impregnata di fantasia; e la immaginazione ha nella favola data la vita a quella poetica natura. Circe con i suoi incanti,Cariddi, figlia di Nettuno e della Terra che, precipitata in mare, diventa un Vortice; Scilla cangiata in mostro da ' dodici artigli; le sei bocche e le altrettante teste, i cani che, annidati nel suo corpo, co '
contìnui latrati spaventano i passeggeri, sono creazioni mitologiche, ciascuna delle quali esprìme un attributo della natura: e le correnti vorticose, il sole, i venti, la Fata Morgana, la primavera continua, la strapotente forza della luce, il lusso della vegetazione nelle terre che fiancheggiano lo stretto, il profumo dei fiori, tutto è magia perenne, tutto è sorriso di creazione, tutto è in armonia col vecchio e nuovo mito; dagl'incanti di Circe al miracolo del Santo che vi naviga sul mantello! (9).

E Morandi: Questa incantevole terra "di monti coronata e di querceti", limitata dal torrente Favazzana e da Capo Paci, chiusa dalla chiostra dell'Appennino merlato, specchiata dal tremolare della marina, dette sempre convegno, nell'eterna festa della Natura, a spiriti grandi, quasi ammaliati da tanta bellezza. C'è in questo paesaggio una venustà ignota ai lunghi rettilinei di altre spiagge: qui, gli elementi panoramici sono vari e contrastanti, disposti in modo da poterli percepire con un rapido giro dello sguardo (10). E De Gustine: Non credo ci sia al mondo una regione più bella di questa parte delle coste calabresi (...) Questi spericolati anfiteatri si innalzano ad altezze terrificanti; niente è più sorprendente del contrasto fra il lavoro dell'uomo e
l'irregolarità di una natura indomabile, ma allo stesso tempo addolcita da quell'armonia che ho trovato solo nei paesaggi italiani. Le forme e le luci di questi luoghi sublimi sono quasi troppo belle per essere vere, eppure non sono quadri, sono delle campagne reali, sono "invenzioni" della natura. Qui sembra che essa non permetta all'uomo di abbellire la terra a modo suo, sembra che debba sempre immischiarsi in questo compito e che malgrado ciò si preoccupi di nascondere le sue opere d'arte sotto un'apparenza lussureggiante, selvaggia e primitiva. Delle specie di piante selvatiche crescono sotto i pergolati di pampini, invadendo la terra che paiono contendere alle colture. Il bagolaro, ad esempio, estende i suoi rami tortuosi su di una piantagione a filati sfalsati di aranci, mentre dei magnifici gelsomini selvatici crescono nelle crepe dei muri scardinandoli, oppure formano delle ghirlande naturali che ricadono dalle rampe e dalle terrazze, decorando così quasi tutte le città del sud Italia. Sembra che qui la natura, disgustata dalle conquiste
dell'uomo, si prenda gioco della civiltà, senza apparvi degli ostacoli invalicabili come nelle Alpi, ma abbellendola come in pittura!... Lasciatemi dire tutto quello che provo! Voi amate Napoli e i suoi paesaggi vi incantano, ebbene quello che vedo da tre giorni è superiore! Vorrei solo che dall'alto di una catena formidabile di monti e al di là di una foresta di castagni, voi poteste scorgere almeno una volta questo mare azzurro che brilla davanti a me; sembra che in luoghi del genere le leggi dell'universo siano capovolte. Il cielo è ai nostri piedi; non sappiamo dove siamo, dove andiamo;
stiamo volando, stiamo dominando il mondo, ci stiamo perdendo in un mondo aereo e l'immaginazione si riposa perché quel che vedono i nostri occhi la supera!
(11).

Gli uomini che con le navi o a piedi arrivavano a Scilla, erano affascinati dalla bellezza e dalla maestosità della natura. La rupe si ergeva solenne in mezzo alla scogliera e alla spiaggia, le acque limpide accarezzavano gli scogli acuminati ed entravano dolcemente nelle caverne, le montagne si elevavano imponenti e inaccessibili per la fitta vegetazione, le isole Eolie lontane spuntavano dal mare come fantasmi e la costa della Sicilia sembrava dialogare con quella calabrese. Scrive Strutt: Arrivammo subito a Scilla, di classica memoria, a cinque miglia da Bagnara. Le rocce, sporgenti ancora e sempre, combattono la loro battaglia marina con le "abbaianti onde". Le loro forcute punte presentano un aspetto formidabile. La roccia principale, che è coronata da un forte (una volta considerato importante, ora ridotto ad una rovina, essendo stato smantellato dai francesi), forma un potente frangiflutti a protezione del piccolo porto che offre riparo a barche da pesca, "speronare " ed altri natanti che appartengono al villaggio di Scilla o sono di passaggio. Lo spettacolo era troppo pittoresco per non tentare la mia matita(12). E Ciardo: A Scilla ho la sensazione che le forze della natura siano state fermate di colpo nelle loro primordiali convulsioni di assestamento, tanto il paesaggio è sconcertante ed assurdo, quasi che non abbia fatto in tempo a comporsi in un insieme più ordinato e sereno (...) Una malinconia remota domina gli uomini e le cose. E' una natura imbronciata, non riposante, le cui suggestioni, grevi e inconsuete, turbano quasi, almeno la prima volta. Se l'occhio si posa sul mare incredibilmente azzurro, non si può fare a meno d'immaginarlo scagliarsi con ondate mostruose contro le miti casette della spiaggia (13).

Come le nuvole che assumono forme diverse, anche la rupe di Scilla, che si ergeva in mezzo alla spiaggia di Marina Grande e alla scogliera della Chianalea, suscitava immagini diverse. Una storia narra che Scilla era una bellissima ninfa, figlia di Forco e di Crateide. Di lei si invaghì Glauco, dio marino, con le chiome di verdi alghe fluenti sulle spalle e con le braccia azzurre, simile ad un pesce. La giovane rifiutò Glauco il quale si rivolse alla maga Circe per essere aiutato a conquistare la ninfa. Circe, figlia del Sole, si innamorò però di lui, ne ebbe un figlio e pensò di sbarazzarsi di Scilla. Sapeva che la giovane fanciulla andava di solito a lavarsi nella grotta in prossimità della rupe dello Stretto per ripararsi dalle onde del mare in tempesta e dai cocenti raggi del sole. Un giorno, avvelenò l'acqua della grotta spargendovi una pozione magica e appena Scilla si immerse dal suo inguine spuntarono spaventosi cani dalle grandi bocche. La caratteristiche del luogo hanno ispirato questa storia ai poeti. La parte superiore del promontorio, come scrive Marafioti, sembra avere un aspetto umano mentre nella parte inferiore, l'acqua, rifrangendosi negli scogli cavernosi, genera rumori che ricordano il latrare dei cani e l'ululare dei lupi: Prima che questo sasso fosse stato coverto con le fabriche del castello, appareva innalzato sovra il mare, come un corpo humano, dal mezzo busto in alto, e perché dalla parte di sotto è cavernoso, e nel tempo delle tempeste entrando il mare fa risonare le sotterranee caverne, appunto come latrati di cani, e ululi di lupi; finsero i poeti, che Scilla sia una donna, la quale dal cinto in alto ha l'effigie humana, e dal cinto in giù sia mostruosa informa di cane, e lupo (14).

Una seconda leggenda narra che un giorno alcuni aquilotti volavano davanti a Giove impedendogli di guardare la sua ninfa prediletta. Il re dell'Olimpo, infastidito, scagliò le sue saette contro gli uccelli trasformandoli in cani e facendoli precipitare in mare. La madre degli aquilotti, tornata nel suo nido, lo trovò vuoto e addolorata chiese a Giove il permesso di andare a cercare i suoi piccoli. II padre degli dei, commosso, acconsentì. L'aquila girò in lungo e in largo il Mediterraneo e li avvistò proprio nel tratto di mare dove è situata Scilla. Scendendo verso di essi maledì Giove per la sua malvagità, ma questi ascoltò le sue parole e, indignato, scagliò contro di lei una nuova saetta che le ruppe l'ala e le provocò una voragine nel ventre. L'aquila precipitò e la sua testa si trasformò in uno scoglio impervio e il suo ventre in una grotta. Gli aquilotti-cani accorsi verso la madre si trasformarono anch'essi in scogli e conservarono i latrati dei cani (15).

Una terza storia narra che Scilla, figlia del re Niso di Megara, si invaghì di Minosse re di Creta, il quale aveva assediato la sua città. La bellissima giovane lo ammirava da una torre della città, e, impazzita d'amore, strappò furtivamente a suo padre il rosso capello in cui erano riposti la sua vita e quella della sua città e la portò a Minosse. Il re sdegnosamente la rifiutò e Scilla disperata si buttò in acqua attaccandosi alla chiglia della sua nave, ma il padre Niso, già mutato dagli dei in aquila marina, le si precipitò addosso per straziarla col suo becco adunco. Scilla fu allora mutata in un uccello marino detto Ciris per ricordare il capello reciso (16).

Queste ultime due leggende furono ispirate dall'aspetto della rupe. Lo scoglio di Scilla, visto dal mare, notava Leoni, somigliava ad una grande aquila che volava su un campo di verzura (17). Più precisa è la descrizione di Morandi: A guardarla dai monti "Serisi", "Cucuddu" o delle "Serre" del massiccio appenninico calabrese, che maestosi la dominano, la città, così come sono disposti i tre grandi quartieri che la compongono, da l’impressione di un enorme aquila librata. "San Giorgio ", il quartiere maggiore sovrastante, costituirebbe il corpo e la coda; "Marina Grande" e "Chianalea", sottostanti, laterali, lunghi e stretti, formerebbero le ali, mentre la rupe famosa, rotonda, che si insinua per oltre duecento metri dal mare, costituirebbe la testa (18).

Il tema ricorrente delle storie mitiche è quello dell'amore e dell'orrore perché Scilla era bella e orrida allo stesso tempo. Quel luogo, spettacolo sublime, simbolo di bellezza e di luce, rappresentazione della pace e dell'ordine, improvvisamente cambiava aspetto. Il cielo diventava cupo e tenebroso, le acque del mare impazzivano e creavano dei gorghi, le onde si scaraventavano contro le caverne tenebrose latrando come lupi, le isole lontane scomparivano come fantasmi, le montagne rumoreggiavano sinistramente e la costa siciliana sembrava muoversi. Da luogo ameno e pittoresco, Scilla diventava luogo orrendo, simbolo di bruttezza e di oscurità, rappresentazione del disordine e del caos. Il mito di Scilla trae origine dalla paradisiaca amenità e dall'asprezza del luogo. Quello spazio da una parte era manifestazione del divino, poiché ogni cosa stava al suo posto, dentro i propri confini, dall'altra era manifestazione del misterioso, perché le forze del caos ritornavano minacciose. Quella natura grandiosamente dolce e terrificante spingeva a fantasticare, ispirava i poeti ad inventare delle storie.  

Gli uomini da sempre si ispirano ai paesaggi selvaggi e misteriosi, proiettano le loro emozioni sui panorami naturali. Gli artisti hanno mostrato e descritto la pace e il terrore di Scilla, hanno trasformato lo spaventoso e il meraviglioso di quel luogo delle origini in poesia e arte (19). Scilla è l'amore e l'odio, ed eros e thanatos sono le sorgenti delle emozioni, il loro conflitto produce creatività, l'uno senza l'altro perderebbero di forza o sarebbero vuoti (20).

Amore di una madre aquila che per giorni sorvola il mare in cerca dei suoi figlioli scaraventati nel mare dall'ira di una saetta di Giove; amore della maga Circe che, gelosa di Glauco, trasforma in mostro la sua giovane e avvenente rivale; amore di una donna che per essere corrisposta dal suo innamorato, decide di dare la morte a suo padre e tradire la sua patria. Nel racconto di Ovidio, così Glauco disse alla maga Circe per costringere Scilla a cedere al suo amore: Ma perché tu conosca la causa della mia folle passione: su una spiaggia d'Italia, di fronte alle mura di Messina, io ho visto Scilla. Non sto a riferirti (mi vergogno troppo) le promesse, le suppliche, le lusinghe, le parole mie: tutto ha disprezzato. Ma ora tu, se le formule magiche possono qualcosa, schiudi la bocca e falle l’incantesimo; o se per espugnare sono meglio le erbe, serviti dei poteri di un 'erba di provata efficacia. E non ti chiedo di medicare e sanare la ferita mia: non voglio che tu me ne Uberi, voglio che anche Sciita bruci di questo fuoco (21). E lo stesso Glauco così rispondeva alle vane offerte d'amore della figlia del Sole: Fronde nasceranno in mare,  e alghe sulle cime dei monti, prima che muti il mio amore per Sciita, finché Sciita è viva (22).

I poeti hanno operato una frantumazione del mito anche se non lo hanno modificato nella sostanza. Sulle tre versioni di cui abbiamo parlato esistono delle varianti. Se per Ovidio Scilla era stata rifiutata da Minosse, aggredita dal padre e poi trasformata in uccello marino, per Pausania era stata presa in sposa da Minosse, ma poco dopo questi l'aveva uccisa e ne aveva fatto buttare il corpo in mare. Le onde la portarono sul promontorio calabro e lì giacque insepolta sino a quanto non fu ingozzata da pennuti marini (23). Se per Ovidio Glauco era andato da Circe per chiederle di usare le sue arti magiche al fine di convincere Scilla ad amarlo, in un'altra versione Glauco e Scilla si amavano e Circe, gelosa, avvelenò le acque dove si immergevano i due giovani provocando la loro fine: Glauco per pietà fu convertito dagli dei in dio marino e Scilla in un essere con il corpo di ninfa e il ventre di cane (24). Un'altra versione narra invece che, poiché Poseidone si era perdutamente innamorato della ninfa Scilla, Anfitrite, gelosa, gettò delle erbe magiche nel mare dove la fanciulla si bagnava trasformandola in mostro (25). Un'altra storia ancora, che fonde in un certo senso le ultime due, racconta che Scilla, innamorata di Glauco, aveva respinto le profferte d'amore di Poseidone che l'aveva punita con l'orribile metamorfosi (26). Nel "Liber Monstruorum" si narra invece che Scilla era innamorata di Glauco ma questi amava Circe, e insieme a lei la trasformò in mostro (27). Virgilio addirittura fonde le storie di Niso con quella raccontata da Omero (28) e Ovidio quella di Niso con quella di Glauco (29).

Anche sull'aspetto di Scilla la letteratura presenta diverse versioni. Per Omero, Scilla aveva dodici piedi anteriori con sei bocche bramose situate su lunghi colli che emettevano latrati come di un "giovine cane". Per Stesicoro, Scilla era metà donna e metà animale, con una lunga coda pisciforme come un tritone o una Echidna, e con protomi di cani furiosi emergenti dai fianchi e dalle spalle(30). Per Ovidio, Scilla era una fanciulla bellissima che aveva nel ventre dei cani ferocissimi, mentre per Virgilio, nella parte superiore, aveva l'aspetto di una bella vergine, il ventre abitato da lupi e la coda di pistrice, animale non dissimile ai delfini (31). Per Lucrezio, Scilla era metà mostro marino e metà donna, con il ventre cinto di teste canine rabbiose (32) mentre per l'autore anonimo del "Liber Monstruorum" aveva fino al ventre, il corpo di donna, nella parte inferiore era un cane e aveva la coda di delfino (33). Secondo una leggenda popolare, Scilla si presentava con il corpo di donna terminante con due code di pesce rivolte all'insù e tenute in mano, come si nota nello stemma della città (34). Se per Omero Scilla spostava grandi masse d'acqua scaraventando i marinai fuori dalle loro navi, per Virgilio, come le sirene, mostrava il volto bellissimo e attraeva le navi sugli scogli (35).

  Nella tradizione popolare il mostro, durante le tempeste, usciva dalle caverne sottomarine e, confondendosi con i cavalloni, afferrava i marinai dalla nave, mentre in altre narrazioni era un mostro che pazientemente stava in attesa vicino alla grotta aspettando che le navi si schiantassero contro gli scogli per agguantare gli equipaggi.

Le raffigurazioni di Scilla nella scultura, nella pittura e nelle incisioni sono ancora più variegate. L'orribile mostro che il poeta dell'Odissea descrive come una piovra gigantesca (36), soprattutto dal V secolo a.C. comincia ad essere rappresentato con un corpo femminile, coda di pesce e cani feroci che spuntano dal ventre e tale lo si ritrova sino alla più tarda romanità e anche oltre (37). Scilla appare in aspetto terribile, di donna cinta da cani furiosi e a volte di serpenti, composta nella parte inferiore di delfini, di dragoni marini e di code di pesci mostruosi, armata di tridente, di timone, diremo, di sassi, di fiaccole e anche di pugnale, con cui uscendo dall'antro aggredisce naviganti e navi (38).

 

        2. II mito e l'archetipo

Non sempre i miti sono in sintonia con le strutture sociali, con la geografia del paese o con lo stesso orizzonte intellettuale. Scilla non aveva solo lo scopo di far fronte ai problemi del mondo sensibile, il suo mito non era unicamente il riflesso della società naturale, socio economica, politica o religiosa. Non c'è una dipendenza meccanica tra la mentalità e la vita materiale di una società, a volte la tradizione mitica resiste ai mutamenti politici e sociali. Il mito di Scilla non risponde solo alle ansie del momento, non è una storia pratica per risolvere problemi pratici, ma è anche espressione di modelli culturali preesistenti, modelli inconsci che resistono tenacemente all'usura del tempo, che risalgono lungo il corso dei secoli. Alcune verità del suo mito si sottraggono ai condizionamenti storici perché rinviano ad una realtà primordiale.

Scilla è un archetipo dell'inconscio collettivo, un patrimonio carico di significati profondi della psiche umana. L'opposizione donna animale era una costruzione che non avveniva in maniera cosciente, un'attività di pensiero indipendente da ogni soggetto, frutto di un'azione spontanea degli strati profondi dell'inconscio. Scilla era una forma di espressione simbolica primordiale che si rivolgeva alle profondità dell'essere, che si generava non tanto dal pensiero degli uomini, quanto dai loro sentimenti e dall'esperienza vissuta, una proiezione di ricordi primordiali già fissati in precedenza dalla coscienza collettiva i quali si imponevano a quelli individuali.
Scilla è una figura prototipica che concerne le origini stesse dell'umanità, una rivelazione originale della psiche preconscia, una struttura archetipica della coscienza umana che ha contenuti e comportamenti uguali dappertutto e per tutti gli individui (39). Gli archetipi possono infatti riprodursi spontaneamente sempre e ovunque, in forme e modalità indipendenti dalle influenze esterne (40). Il mito di Scilla è, come direbbe Lèvi-Strauss, un pensiero astratto e logico, un codice presente in tutte le epoche, una profonda espressione dello Spirito.

Jung sostiene che gli archetipi sono i contenuti psichici dell'inconscio collettivo, rappresentazioni comuni, "immagini universali presenti sin dai tempi remoti" (41). Scilla è un'immagine archetipica carica di significati che non hanno bisogno di essere spiegati, poiché è a priori così carica di sensi che non ci si chiede mai che cosa veramente possano voler dire (42). E' un’immagine formatasi in un'epoca in cui l'uomo era meno soggetto a condizionamenti del pensiero conscio, un'epoca in cui la conoscenza non era frutto del pensiero, ma soprattutto della percezione. Il mito, dunque, rifletteva il mondo psicologico interiore e lo spirito dell'uomo.

Scilla è un simbolo che non si confonde con il mondo empirico, è una sorta di rivelazione dell'assoluto, in cui il senso è legato all'immagine, in cui il significato si identifica col significante. E' un’immagine prodotta in un mondo primordiale in cui la mente umana non si esprimeva tramite il pensiero astratto, bensì tramite figure che contengono forma e contenuto. Scilla è stata condizionata dal processo storico, ma il suo contenuto e la sua forma sono rimaste inalterate. E' un archetipo che nel corso del tempo si è frammentato,  ma che nelle continue scissioni conserva una struttura solida. E' un essere ancora presente nella memoria e nell'inconscio degli uomini, produce emozioni che non sono diverse da quelle del passato. È un mito che non si lascia rinchiudere nelle gabbie del tempo e dello spazio. È una figura strettamente legata alle vicende storielle, ma è senza storia nel senso tradizionale, è un'esperienza che è stata vissuta nel passato, è vissuta nel presente e sarà vissuta per molto tempo nel futuro.

Nonostante le differenze geografiche, storiche e sociali, l'immagine del mostro metà animale e metà donna è presente con gli stessi caratteri e spesso con gli stessi particolari in diverse zone del Mediterraneo.

Ea, Sfinge, le Sirene, le Arpie, Eilith, le Strigi, le Gorgoni, la Medusa, le Enpuse, Echidna, le Idre, le Eamie, le Erinni, le Furie, e tante altre figure mitologiche sono simili a Scilla (43). I materiali che abbiamo non sono sufficienti a dimostrare la diretta filiazione dell'una dall'altra. Spesso senza accorgercene siamo portati ad evidenziare le rassomiglianze o a tralasciare le differenze, o ancora a porre l'attenzione su ciò che può dare coerenza alle nostre ipotesi. Vi sono però elementi troppo costanti per essere attribuiti al caso. Le rassomiglianze di questi mostri, per limitarci solo a quelli della mitologia classica e dell'area Mediterranea, sono indiscutibili e, se qualche differenza c'è, sembra essere dovuta soltanto alle diversità socioculturali degli ambienti naturali, sociali e culturali nei quali il racconto viene narrato. E' abbastanza spiegabile, ad esempio, che la parte animale delle Arpie fosse un rapace, considerando che questi uccelli erano presenti sulle montagne rocciose e che invece la parte animale delle Sirene fosse costituita dalla coda di pesce considerando che erano presenti lungo le coste. Dumezil riconosce le differenze in campo ideologico che separavano certi popoli da altri, ma individua un'ossatura e un'origine comune di grandi aree geografiche (44). Le società antiche dialogavano tra loro e si scambiavano le proprie culture che venivano interpretate, rimodellate e inserite in tradizioni mitiche diverse. Anche le regioni periferiche, pur mantenendo inalterati i propri sistemi produttivi e i propri costumi, recepivano e assimilavano certe novità di pensiero che provenivano da altre zone. Non esistevano mondi statici e regioni immobili culturalmente, non vi erano universi culturali autonomi e meccanicamente legati alle strutture economiche e alla natura, società che rimanevano estranee ai processi di trasformazione. Bisogna inoltre rifiutare l'idea di mondi semplici, in cui il tempo si fosse fermato e in cui gli uomini pensavano a soddisfare i propri bisogni primari. Non si deve pensare che in tempi remoti vigesse solo la logica della sopravvivenza, che non ci fossero momenti in cui il superfluo vinceva sul necessario e che ci fosse una cultura collettiva fissata nel tempo a cui tutti si omologavano. Anche le società antiche erano tutt'altro che semplici e unite, fra gli individui c'erano profonde differenze di mentalità e c'era una grande ricchezza culturale. Si trattava di società assai complesse, caratterizzate da molte divisioni al loro interno e sottoposte a forti stimoli che provenivano dalle relazioni col mondo esterno. La Calabria, terra a cui era legato il mito di Stilla, ad esempio, era in contatto con tutto il Mediterraneo e ne era fortemente influenzata. La mancanza dì porti e agevoli vie di comunicazione, favoriva un isolamento della regione, ma anche le zone più inaccessibili erano toccate dalle correnti civilizzatrici. Anche se i contatti con gli altri paesi erano lenti e difficoltosi, i calabresi avevano intense relazioni con l'esterno; anche se inconsapevolmente erano continuamente contaminati da nuove idee e sensibilità. C'era un continuo scambio con i paesi vicini e lontani: popoli di tutto il Mediterraneo arrivavano in Calabria per trafficare, vendere e acquistare merci, per trovare ispirazione nell'arte, per sfuggire alle persecuzioni, fondare colonie. Culture di altri mondi, lentamente ma inesorabilmente, penetravano nei luoghi più remoti e finivano per essere conservate dalla memoria collettiva in maniera tenace.

Anche i miti subivano continue trasformazioni. La Fata Morgana, ad esempio, è la maga che poco lontano da Scilla, si divertiva a fare magie sulle acque dello Stretto, è un nome legato alla leggenda di re Artù. Secondo alcuni, Gervasio da Tilbury scrisse un racconto che strappava re Artù all'isola di Avalon, per condurlo sotto l'Etna, dove nella tradizione vivevano i Ciclopi o i Titani. Gervasio nel 1190 era stato in Sicilia ai servigi di re Guglielmo, ed aveva avuto modo di conoscere molte leggende di quella terra su cui aveva poi innestato le sue versioni (45). Non è da escludere dunque che, Scilla sia il frutto di uno scambio tra popolazioni diverse e che la diversità delle versioni sia legata all'ambiente culturale in cui il mito si è sviluppato.

  I mostri femminili costituivano uno strato archetipico dell'inconscio collettivo sopravvissuto ad un forte potere di distorsione e di erosione. Erano forme di espressione simbolica primordiale,creazioni immaginarie al di fuori dell'esperienza individuale, figure che non possedevano una forma ben definita, ma ne assumevano di volta in volta una diversa. Erano figure polisemiche, in continuo movimento, con una potenza di sviluppo indefinita, e questa loro capacità gli dava la forza di resistere al logoramento del tempo e della storia. Gli esseri mostruosi metà donna e metà animale, variavano da una parte all'altra, ma il loro disegno centrale rimaneva inalterato, il racconto mutava, ma la struttura era sempre la stessa. Il loro senso a volte nascosto e non cosciente era indipendente all'ordine narrativo. Ci sono denominatori comuni che permettono di ricondurre vari racconti a quella logica essenziale a cui soggiacciono e che li caratterizza. La ripetizione di questi sensi, come scrive Lévi-Strauss, ha una funzione peculiare che è quella di rendere manifesta la struttura del mito.

Scilla e gli altri mostri metà donna e metà animale sono esseri per metà straordinariamente belli e per metà straordinariamente brutti. La loro bellezza è data dalle sembianze umane femminili e la bruttezza dalle sembianze animali. Sono esseri mostruosi e feroci più di qualunque animale selvaggio, perché nati da rapporti incestuosi. Sono cannibali e, per divorare la carne umana, ricorrono alla forza, alla seduzione, all'inganno e alla conoscenza. Sono inoltre spaventosamente grandi, dimorano su alte rocce, sotto gli abissi del mare o nei deserti. Pur vivendo vicino agli uomini, sono condannati a vivere al di fuori delle regole sociali come le bestie feroci e selvagge. Abitano tutti in punti strategici da cui dominano ampi tenitori, plaghe desertiche o luoghi pericolosi in cui l'uomo è costretto a passare, ma dove si può smarrire, prendere la strada sbagliata e soccombere. Sembrano voler difendere un luogo o una zona di confine che separa il mondo conosciuto da quello sconosciuto.

Ma cosa proteggevano queste figure mitiche? Probabilmente il regno dell'Ade, il mondo senza vegetazione e senza luce, la terra avvolta dall'eterna notte, dove si trovavano fiumi terrificanti e misteriosi acquitrini. Le caverne sotterranee di Scilla erano il mondo dello spaesamento e dello smarrimento, l'universo pieno di incognite e di rischi estremi e imprevedibili (46). Se Scilla era la figura mostruosa e pericolosa era però anche un'esperienza di conoscenza poiché permetteva all'uomo di entrare in contatto col mondo infero, di risolvere l'indecifrabilità dell'enigma e il disordine del caos. Gli uomini hanno sempre desiderato di oltrepassare la soglia sacra e accedere al regno delle ombre, ma per far questo dovevano superare prove difficili, affrontare ostacoli insormontabili. Il viaggio nel mondo degli inferi era sempre sbarrato da mostri simili a Scilla. Le fauci, i denti aguzzi e gli artigli impedivano agli uomini di penetrare nel regno delle ombre, il mondo che incuteva paura ma che tutti volevano vedere da vivi.

Il mondo delle caverne dove viveva Scilla è il mondo del rimosso e il rimosso è la morte (47). La caverna è il luogo del passaggio nel mondo delle ombre e dei morti. Il nome Scilla, secondo Vasconi, trae origine probabilmente dal termine semitico "cholah", che significa doloroso, pieno di tormenti, termine derivato dal verbo"chul", che in greco significa concavo o profondo. 11 tedesco "noi"significa cavo, "nòie" vuoi dire caverna e "bolle" inferno. Lo stesso autore, però, scriveva che più probabilmente Stilla aveva derivazione del nome sanscrito "Khajà", che significa ombra (48). Esseri come Scilla erano il mostruoso che c'è in ogni uomo, le paure più profonde di ogni essere umano. Erano il pericoloso e il perturbante del mondo ignoto che gli uomini volevano conoscere per superare l'insicurezza che li angosciava. Erano frutto del profondo, delle paure o trasposizione di desideri rimossi, immagini archetipiche che affioravano nell'animo umano istintivamente. Scilla era una divinità primitiva senza alcun principio ordinatore, era la personificazione della voragine buia, lo spazio infinito, un luogo nel quale niente era distinto (49). Zeus, colui che l'aveva trasformata in mostro, aveva battuto suo padre Typhon, drago dalle mille voci, potenza della confusione e del disordine e dal suo corpo erano nati i venti che soffiavano nello spazio e che separavano il cielo dalla terra. La figura di Scilla ripeteva simbolicamente un atto primordiale: la trasformazione del caos in cosmo.

 Era la narrazione della creazione, di ciò che era accaduto nel tempo delle origini, degli avvenimenti in seguito al quale si era creato il mondo (50). La sua forma racconta la creazione scaturita da un caos iniziale da cui poi erano nate forze dell'ordine. Scilla, è la rappresentazione del rischio della fine, la minaccia dello spaesamento, della caduta nell'abisso e nel baratro. Il caos era il tenebroso delle grotte sotto la rupe e degli abissi delle acque, il luogo dove avvenivano moti caotici, dove vi era una realtà indistinta e indivisa degli elementi, dove tutto era agitato da moti incomposti. Stilla era una forza nascosta che travolgeva e disarmava gli uomini, la sua immagine provocava inquietudini, svelava realtà oscure, ricreava forze che si agitavano sotto la terra, proiettava conflitti e lotte primordiali. Il mostro dello Stretto dissolveva la realtà del mondo nell'irrealtà dello spirito, creava una forma di illusione e un'esperienza onirica, trascendeva la realtà e capovolgeva l'ordine,dava spazio a quell'irrazionale che abitava nelle profondità dell'anima, trasportava gli uomini in un mondo ignoto alla ragione, un universo agito da forze misteriose, creava la sensazione di un ritorno ai primordi. L'uomo era disponibile a vivere scenari che trascendevano il proprio orizzonte. La figura mitica di Stilla creava un pathos, distruggeva i limiti dell'esistenza, gettava nell'oblio, creava una catarsi e coinvolgeva gli uomini in una vicenda di rovesciamento le cui ragioni trascendevano le verità. Stilla non eccitava la ragione, ma induceva all'abbandono e all'estasi. Il suo simbolo non rinviava a significati conosciuti, ma ad una struttura segreta e oscura del mondo. Questa struttura era espressione di desideri inconsci, come dice Freud, di pulsioni affettive che si manifestavano nei sogni, nei fantasmi di certe nevrosi o nelle figure simboliche degli oggetti della libido o nell'aspirazione umana all'incondizionato, all'assoluto o al sacro. Nell'uomo c'era una nostalgia del primitivo e del naturale, del sublime e del divino e Scilla proiettava la realtà nel mondo fantastico e magico che popolava i sogni degli uomini, creava un incantesimo. L'uomo, nel fantasticare il suo universo, si credeva fatto ad immagine di Dio, ma l'animale stava sempre lì a ricordargli la sua appartenenza al mondo della natura. Il ventre di Stilla era popolato da lupi famelici e anche in diversi popoli primitivi il mondo uterino era popolato da mostri fantastici e animali feroci, i quali accrescevano il dolore del travaglio o erano le doglie stesse personificate(51). L'animale mostruoso, potente e miracoloso, incarnava la paura vitale e il rischio mortale. Scilla era l'ossessione dell'anormale e dell'inclassificabile, ma anche dell'onnipresenza del mostruoso nel pensiero umano, fonte di paura e di attrazione. Attraverso il racconto mitico, gli uomini spiegavano le paure che dominavano la loro vita e allo stesso tempo le neutralizzavano. Mostri come Scilla, rammentavano simbolicamente agli uomini che il disordine poteva nuovamente impadronirsi della loro vita, rappresentavano il rischio di precipitare il cosmo nel caos. La narrazione mitica riconosceva e rinnovava la potenza del disordine, ma allo stesso tempo tracciando un confine la addomesticava. Il racconto mitico permetteva che il mondo avesse un sopra e un sotto, un centro e una periferia, ma tali spazi per essere tali, dovevano essere continuamente attraversati.

 

 

        note

  Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilia, ed. it., Torino, Utct, 1969, p. 505.
   Su Cariddi chiedeva: Riguardo a Cariddi, vorrei che mi scrìvessi minutamente se il fenomeno corrisponde a quanto si racconta;

    e, se per caso hai posto attenzione — la cosa è degna di attenzione!, informami se un solo vento ivi produce i vortici od ogni procella solleva in alto

    ugualmente quel mare, e se veramente, quanto è stato inghiottito da quel gorgo,

    vien trascinato per molte miglia sottacqua ed emerge presso la spiaggia di Taormina .

1) Ibidem.

2) Scriveva su Cariddi il barone Riedsel: // canale - ("Faro")- in questo luogo non ha che dodici miglia d'Italia di larghezza,

     ed io ebbi un'altra volta l'occasione, in questo passaggio, di veder assai da vicino la celebre Cariddi e di convincermi di nuovo eh 'essa non è né profonda,

      né pericolosa, e che quel vortice non è cagionato da una voragine, ma soltanto da due correnti opposte che si sforzano di penetrare nello Stretto l'ima dal lato

     del nord, l'altra da quella del sud; siccome queste due correnti non si portano nel canale con la medesima forza, né nel medesimo tempo,

      esse cagionano una specie di flusso e reflusso, che, si succede di sei in sei ore, e su cui i marinari si dirigono facendo canale; in guisa che il passaggio

      può farsi comodamente e celerissimamente senza remi né vele, e se accade qualche volta di perdersi un grosso vascello, ordinariamente ciò avviene

      per l'ignoranza de' marinari, che prendono male il loro tempo per introdursi nello Stretto; per cui allora la corrente li sbalza contro la riva ove sono

     obbligati di fracassarsi (Barone Riedesel, Viaggio in Sicilia, Palermo, tip. Abbate,1821, p. 125).

 

3) Cff. Giovanni Sóle, Belli e brutti. Apollineo e dionisiaco ad Alessandria del Carretto, Rende,

     Centro Editoriale e Librario, Università degli Studi della Calabria, 1998.

4) Cfr. Jean Hassmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche,Torino, Einaudi, 1992, pp. 68-73.

5) Giovanni Sale, L'eremita e i famelici leoni, cit.

6) Otto Rank, // tema dell'incesto nella poesia e nella leggenda: fondamenti psicologici della creazione poetica, Milano, Sugarco, 1989. p. 70.

7) Otto Rank, op. cit., pp. 217-218.

8) Giovanni Pascoli, Un poeta di lingua morta, in "Prose". Milano, Mondadori, 1971, p. 155.

9) Nicola Marcene, Un viaggio in Calabria. Impressioni e ricordi, Roma, Tip.Sociale, 1885, pp. 49-50.

10) Michele Morandi, Salila, in "Le vie d'Italia", Rivista mensile del T.C.I., Milano, 1933, pp. 609-610.

11) Astolphe De Gustine, Memoires et voyages, in "Ai fieri calabresi. L'Europa in Calabria", Milano, Franco  Maria Ricci, 1989, p. 108.

12) Arthur John Strutt, Calabria Sicilia 1840, (ristampa), Ed. Scientifiche Italiane, Napoli, 1970, p. 209.

13) Vincenzo Ciardo, Sensazioni di Salila, in "Brutium", n.1-2, a. XXXI, Gennaio-Febbraio, 1952.

14) Girolamo Marafioli. op. cit.. p. 64. Cfr. Caterina Pigorini-Beri, In Calabria,(ristampa), Bologna, Forni. 1982, p. 207.

15) Cfr. Vincenzo Paladino, Calabria ultima. Mostri miti e utopia, Milano, Pan,1982, pp. 6-7.

16) Scrive Ovidio: Aveva appena finito di dire, che si tuffò in acqua e inseguì le navi (la smania le dava forza) e, compagna odiosa,

       si aggrappò a quella del re di Cnosso. Come la vide, suo padre, Niso - che già si librava in aria, trasformato da poco in aquila marina dalle fulve ali,

       si slanciò per straziarla, appesa coni'era, col becco adunco. Lei spaventata lasciò la poppa, e pane che l'aria leggera la sostenesse, nella caduta,

       perché non toccasse la superficie del mare. Si ritrovò piumata: trasformata in uccello piumato, è detta Ciri,

       ed ha questo nome per il capello che ha reciso

      (Publio Ovidio Nasone, op. cit., p. 301. Cfr. Giovanni Boccaccio, Amorosa visione,ed. it., Milano, Mondadori, 1974, pp. 84-85.

17) Nicola Leoni, op. cit., p. 39.

18) Michele Morandi, op. cit., p. 610.

19) Leopoldina Fortunati. / mostri nell'immaginario, Milano, Franco Angeli,1995, pp. 47-48.

20) Antonella Riem, II seme e l'urna. Il "doppio" nella letteratura inglese, Ravenna, Longo,1990;

       Romana Rutelli Quintavalle, // desiderio del diverso.Saggio sul doppio, Roma. Liguori, 1979.

21) Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, XIV 16-24, alt., p. 557.

22) Ibidem, 38-39, p. 559.

23) Nicola Leone, op. cit., pp. 39-40.

24) Girolamo Marafioti, op. cit., p. 64.


25) Cfr. Rosa Agizza, op. cit., p. 100.

26) Nelida Caffarello, Dizionario archeologico di antichità classiche. Firenze,Olschki, MCMLXXI, p. 434.

27) Liber Monstrorum, cit., p. 159.

28) Paola Pinotti, op. cit., p. 275.

29) Publio Ovidio Nasone, Amo re s, ed. it, in "Opere", Torino, Utet, 1982, p.195.

30) Scilla, in "Enciclopedia dell'arte antica, classica e orientale", voi. VII, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1966, p. 109.

31) Virgilio, Eneide, III, 426-428, ed. it., Milano, Fondazione Lorenzo Valla,Arnoldo Mondadori, 1978, pp. 33-35.

32) Tito Lucrezio Caro, La natura, V, 890-894, (cd.il.), Torino, Utet, 1976, p.385.

33) Liber Monstrorum, cit.,p. 159.

34) Scilla. Nel mito e nella leggenda. Guida turìstica, cit., p. 18.Virgilio scriveva: Scilla tiene il lato destro, il sinistro l'implacata Cariddi e tre volte

       a dirotto risucchia vasti flutti nel fondo gorgo del baratro, e di nuovo li scaglia alteramente nell'aria e flagella gli astri con l'onda.

       Invece un antro racchiude in ciechi nascondigli Scilla che sporge il volto e attrae le navi sugli scogli. In alto parvenza umana e fanciulla dal bel petto fino

      all'inguine; in basso mostro dal corpo smisurato, unendo code di delfini a ventre di lupi. Meglio percorrere le mete del trinacrio Pachino indugiando,

      e percorrere in giro una lunga rotta, che vedere un'unica volta nel vostro antro l'orrenda Scilla e gli scogli risonanti di cani cerulei

       (Virgilio, Eneide, cit., Ili, 420-432, pp. 33-35).

 

35) Cfr. Bernhard Andreae, L'immagine di Ulisse. Mito e archeologia, Torino,Einaudi, 1983;

       Antonella Barina, La sirena nella mitologia, cit., p. 15.

 

36) Bernhard Andreae, op. cit, pp. 33-37.


37) Domenico Vasconi, op. cit., p. 41.

38) Carl Gustav Jung, Gli archetipi e l'inconscio collettivo, in "Opere", voi. IX.t.I, Torino, Boringhieri, 1980, p. 3.

39) Sugli archetipi si veda anche Jacobi Jolande, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G. Jung, Torino,Boringhieri, 1971; 

       Joseph Campbell, II potere del mito, Milano, Tea, 1990;
       Giordano Fossi, Miti religione e psicoanalisi. Una nuova proposta psicodinamica, Milano, Angeli, 1990.

40) Carl Gustav Jung, L'archetipo della madre, Torino, Boringhieri, 1990, p. 28.

41) Ibidem, p. 4.

42) Ibidem.

43) Cfr. Jacques Brii, Lilith o l'aspetto inquietante del femminile, Genova. Ecig,1990.

44) Georges Dumézil, Gli sei sovrani degli indoeuropei, Torino, Einaudi, 1985. Cfr. Daniel Dubuisson, Mitologie del XX secolo.

      Dumézil, Lévi-Strauss,Eliade, (introduzione di C.Grottanelli e V. Lanternari), Bari, Dedalo. 1995.

45) Arturo Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Milano, Mondadori, 1984, pp. 321-338.

46) Scrive Vasconi: Stilla avrebbe qualche punto di somiglianzà con "Eia" od"Hela" figlia di Loke e di Angherboda, tiene il suo dominio sul "Nifleim"

      (uno dei due inferni favoleggiati dagli Scandinavi), ove fu precipitata e dove  all'incendio del mondo accoglierà i codardi, gli spergiuri, gli adulteri,

       gli assassini in una sala esposta ai venti del  Settentrione, e costruita di cadaveri di serpenti (Domenico Vasconi, op. cit., p. 46).

47) James Hillman. // sogno e il mondo infero, Milano, Ed. di Comunità, 1984,pp. 29-68.

48) Domenico Vasconi, op. cit., pp. 42.

49) Gianni Micheli, Caos/Cosmo, in "Enciclopedia", Voi. II, Torino, Einaudi,1977, pp. 572-588; 

       Cfr. Eduard Zeller – Rodolfo Mondolfo, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, Firenze, La Nuova Italia, 1961.

50) Mircea Eliade, Mito e realtà, cit., p. 28.

51) Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 219.

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