“Terra di Mezzo in Calabria”
Romanzo
di
Riccardo Brunetti
Nella Calabria tra la costa ionica di Rossano e i monti della Sila Greca.
Un’area sospesa tra sviluppo e abbandono, tra l’agrumeto e l’asfalto,
tra processioni e natura.
Protagoniste
Dott.ssa Emilia Zannini – Procuratrice della Repubblica
48 anni, napoletana trapiantata in Calabria per “esigenze di rotazione”.
Inflessibile, elegante anche sotto la toga, ha una parlantina che può uccidere più di una sentenza.
Celibe per scelta, con un fratello scomparso anni prima in un presunto incidente mai risolto.
Crede nella giustizia ma sa che la legge è un’arma lenta in mano a chi la sa maneggiare.
Vive in una casa affittata dentro un ex frantoio, legge poesia araba e cucina malissimo.
Commissaria Nina De Salvo – Polizia di Stato,
Questura di Cosenza
40 anni, calabrese di ritorno dopo anni a Torino, madre single di un adolescente scontroso.
Ironica, affilata, fuma troppo, guida come se fosse ancora a Torino.
Parla poco, osserva molto. Ispira fiducia alle vittime ma mette a disagio i superiori.
Ha un talento nel leggere le bugie, specialmente quelle dette sottovoce.
Tenente Teresa Manna – Comando Carabinieri Forestali,
stazione di Longobucco
35 anni, cresciuta in paese, ex allieva brillante, in perenne lotta con l’ambiente maschilista dell’Arma.
Sensibile ai segni, alle piccole cose. Vive sola con due cani e una madre malata.
Il suo rapporto col bosco è totale. Ha un passato sentimentale difficile che torna a tormentarla.
Trama
Durante gli scavi per la costruzione di un agriturismo di lusso nella zona tra Cropalati e Paludi,
viene ritrovato un corpo murato dentro una vecchia neviera bizantina. Accanto al cadavere,
una croce rovesciata scolpita su una pietra e una pergamena con poche parole scritte a mano:
“Non è finita, né per me, né per voi.”
L’identità del cadavere è impossibile da stabilire con le tecniche canoniche: i registri catastali della
zona sono pieni di falle, e la gente “non ricorda”.
Ma qualcuno comincia a ricevere minacce scritte in dialetto antico, e un
testimone viene ucciso il
giorno prima di parlare.
Le tre donne, la Procuratrice, la Commissaria e la Tenente, si ritrovano costrette a collaborare,
ognuna con i propri strumenti, metodi, visioni.
Le indagini rivelano una trama che attraversa i decenni, legata a una
confraternita religiosa dissolta dopo
l’Unità d’Italia, e ha un patto non scritto tra famiglie locali, politica e latifondisti.
Più scavano, più si rendono conto che non stanno solo indagando su un omicidio:
stanno aprendo una ferita mai rimarginata.
La vecchia neviera sorgeva a mezza costa, sotto un castagneto che i più giovani ormai scambiavano per bosco qualunque,
non c’era sentiero, solo pietre umide, radici gonfie e quel silenzio pesante che nelle montagne della Calabria ha il suono
delle cose mai dette.
Il maresciallo Liotta sbuffò mentre risaliva la china, la torcia tremolante in una mano e l’altra sulla fondina.
«Tenente Ferraro, sicura che non ci siamo persi?»
Rosaria non rispose subito, si chinò, accarezzò la corteccia screpolata di un ontano e si voltò solo quando trovò la traccia:
due segni incisi, vecchi, ma non naturali. «Siamo nel posto giusto.»
La bocca della neviera era semi-aperta, come una ferita lasciata guarire male, il muro di pietra viva cedeva a tratti, e dal foro
usciva un odore che non era solo muschio.
Il tenente Ferraro si avvicinò. «C’è un animale morto, o qualcosa che vuole esserlo.» Liotta si fece il segno della croce.
«A quest’ora, solo i fantasmi girano.»
«I fantasmi non murano i cadaveri, gli uomini sì.»
Fu Chiara Laganà ad apparire in cima al crinale, la pistola bassa,
lo sguardo alto. «Ho fatto il giro dietro, nessuna traccia recente,
ma quel cane randagio, l’ho visto scappare come se avesse visto la Madonna.»
«O il Diavolo», sussurrò Rosaria, chinandosi per entrare.
Dentro era buio, fresco, l’umidità colava dalle pareti, il fascio di luce rimbalzava su frammenti di vetro, ruggine, vecchie corde,
e poi, la parete nord.
Qualcosa sporgeva tra le pietre: stoffa, ossa, gesso?
Rosaria si avvicinò, toccò con un guanto il margine più chiaro, la pietra cedette, un crollo minimo, ma sufficiente,
venne fuori un teschio, con ancora una treccia impigliata alla nuca e un rosario infilato tra i denti. «Gesummaria…» mormorò Liotta.
Chiara si avvicinò lentamente. «Chi cazzo mette un rosario così?»
Rosaria chiuse gli occhi. «Qualcuno che voleva farla tacere per sempre.» All’esterno, il vento era cambiato, e tra le foglie si udì
un cigolio: forse un ramo, o forse no.
Emilia Zannini odiava la luce cruda del primo mattino, quella che infilava gli occhi con la precisione di un bisturi e metteva in
evidenza ogni cosa: rughe, ombre sotto il trucco, e le crepe nei marciapiedi di un paese che si sforzava da decenni di sembrare moderno.
Cropalati le si apriva davanti come un vassoio lasciato al sole:
case basse, balconi col bucato, voci troppo forti per quell’ora, e il campanile che batteva le nove con l’insistenza di una condanna.
Scese dalla sua Lancia blu ministeriale e, prima ancora di chiudere la portiera, si accese una sigaretta. Il maresciallo dei carabinieri
locali, un ragazzone dagli occhi affaticati e la voce troppo pronta le si avvicinò col taccuino già aperto.
“Dottoressa Zannini? Sono il maresciallo Liotta, l’abbiamo attesa.”
Emilia lo squadrò mentre aspirava con calma.
“E voi avete scoperto un cadavere in un posto che sul catasto non esiste, mi
pare che siamo pari.”
Liotta abbozzò un sorriso, la paura travestita da deferenza.
“Mi segua, per favore, la forestale è già sul posto, insieme alla polizia,
camminarono per una strada sterrata che portava a una zona recintata da nastri rossi, dietro la vegetazione secca,
una depressione naturale nel terreno: un’antica neviera, scavata nel calcare, in parte crollata, dentro, l’odore era quello di terra
fradicia, ferro, e silenzio di lunga data. Scesero tre gradini irregolari,
Emilia vide subito il corpo,
o meglio, ciò che ne restava, era murato in piedi, dentro una nicchia, le mani
legate dietro la schiena con filo d’acciaio,
il cranio in parte fratturato, il volto, se ancora si fosse potuto chiamare così, sarebbe stato rivolto verso l’ingresso,
come se stesse aspettando qualcuno.
“Chi l’ha trovato?” chiese Emilia.
Liotta indicò due operai, seduti su un muretto a una decina di metri, con le tute sporche e le facce livide.
“Stavano pulendo la zona per conto dell’impresa agricola, hanno notato una parete strana, l’hanno toccata, ed
è venuto giù tutto.” Emilia si chinò, accanto al cadavere c’era una piccola pergamena, avvolta in plastica trasparente,
infilata in una cavità tra le pietre, la aprì con due pinze, l’inchiostro era sfumato, ma leggibile.
“Non è finita, né per me, né per voi.”
Non firmato, non datato.
“Quando l’avete trovata?” Chiese rivolta a una donna che stava documentando la scena con la macchina fotografica.
“Due ore fa, io sono la commissaria De Salvo, Questura di Cosenza,
e questo è il mio caso, dottoressa.
Emilia la guardò, capelli neri raccolti in uno chignon scomposto, sigaretta dietro l’orecchio, stivali di cuoio lucido,
una donna che conosceva il fango.
“Lo sarà, per ora è un corpo senza identità in un luogo senza proprietà, è territorio aperto, decidiamo insieme, se le va.
De Salvo fece un cenno col capo.
“Mi va.”
Più tardi, in una sala d’appoggio ricavata nell’ex asilo comunale, Emilia, De Salvo e una terza donna si trovarono attorno a
un tavolo di plastica.
La terza era il tenente Teresa Manna, forestale, aveva un’aria gentile, ma le mani da contadina e gli occhi da chi ha già
visto il male e ha deciso di non raccontarlo.
“Io quella neviera la conosco” disse, ci giocavamo da ragazzini, e dicevano fosse stata usata per nascondere cose
durante la guerra, ma nessuno ci è più entrato da almeno vent’anni, è proprietà privata da dieci, ma il titolo è viziato:
c’è una causa di successione mai chiusa.”
Emilia si appuntò tutto.
“Bene, un luogo dimenticato, un corpo murato, e un messaggio lasciato con calma e metodo, non è un delitto d’impeto.”
“È un avvertimento” disse De Salvo.
“Sì, ma non a noi, a qualcuno che non c’è più.
Emilia tornò nella casa che aveva affittato da un professore di storia in pensione: una masseria ristrutturata appena fuori
dal centro, in cucina, accese la moka, poi si sedette e aprì il taccuino, scrisse una frase a penna blu: “Non è finita”,
poi la sottolineò.
Il pensiero volò a suo fratello, scomparso trent’anni prima in un campeggio in Sila, mai ritrovato.
Un giorno prima di sparire, le aveva detto:
“L’unica cosa che bisogna temere, è ciò che sopravvive alla paura.”
Emilia prese un altro foglio e cominciò a scrivere.
Una lettera, alla figlia del fratello, che forse non aveva mai conosciuto,
fuori, la notte saliva dalla valle.
E da qualche parte, la terra stava cominciando a restituire tutto quello che
aveva ingoiato.
........................continua nel romanzo completo