Prologo

Serrastretta, dicembre 1977.

 

Il gelo mordeva le ossa come un animale affamato, la pioggia battente aveva trasformato la terra del cimitero vecchio

in un pantano vischioso. Due uomini, uno con una pala e l’altro con un sacco, lavoravano in silenzio tra le tombe abbandonate.

Nessuna luce, solo il respiro affannoso e il suono sordo del fango.

«È l’unico modo», sibilò il più giovane.

«Il passato non si seppellisce, ritorna sempre», rispose l’altro.

Poi, il buio.

 

 

Capitolo 1Il fascicolo 143/77

La cartellina beige, ingiallita e fragile come pelle vecchia, emanava un odore d’archivio chiuso da decenni,

il vicequestore Brunetti la sfogliava lentamente, seduto alla sua scrivania nella Questura di Cosenza, fuori,

una pioggia battente filtrava appena attraverso i vetri appannati, ogni pagina raccontava una storia mutilata:

verbali smunti, firme spezzate, lacune che puzzavano di insabbiamento.

Maddalena Stilo, infermiera trentaduenne deceduta nel dicembre 1977 all’interno del reparto “Osservazione Intensiva”

dell’ospedale psichiatrico di Girifalco, archiviata come suicidio.

Ma qualcosa non tornava, alcuni documenti erano palesemente scomparsi, altri sembravano riformulati di recente,

come se qualcuno avesse “ripulito” il dossier prima che la Procura di Catanzaro lo trasmettesse alla sua attenzione,

chiedendo un esame “discreto ma approfondito”.

Brunetti si alzò e versò del caffè in una tazza incrinata.

Il centro storico, sotto la pioggia, sembrava uscito da un negativo sbiadito,

un passato che non voleva morire.

L’ispettore Sofia Giordan bussò e aprì la porta. «Capo, ho fatto una prima verifica incrociata sui registri del manicomio

di Girifalco, alcuni pazienti, annotati come trasferiti nel ’78, risultano scomparsi anche nelle ASL di destinazione.»

«E i referti?»

«Mancano, o sono sostituiti da note generiche, ma una cosa mi ha colpito: il nome Progetto Radice compare in una nota interna,

datata novembre 1977, sembra un’iniziativa sperimentale, forse clinica.»

Brunetti si sedette di nuovo. «Chi altro era presente in servizio quella notte?»

«C’è un nome, un certo Antonio Berardi, infermiere, uscito dalla professione negli anni ’90, e vive ancora a Catanzaro Lido

Brunetti prese un foglio e annotò il nome, «domattina lo cerchiamo, ma voglio che qualcuno del nostro staff vada prima in Procura,

ufficio archivi storici, e controlli se qualcun altro ha chiesto accesso a questo fascicolo.»

Un altro agente, il giovane ispettore Damiano Serra, entrò portando una stampa, «vicequestore, abbiamo questo, è una scansione di

un registro battesimi di Serra San Bruno, il nome Maddalena Stilo compare, ma è segnato con una nota:

‘affidata ai servizi della provincia nel 1953’, e ha vissuto in istituto fino all'età adulta.»

Brunetti chiuse gli occhi per un istante, tutto stava diventando più cupo, più personale,

«bene, chiudete la porta, da questo momento il caso è riservato, nessuna fuga, nessun errore, stiamo scavando nella terra dei morti,

e qualcuno non vuole che troviamo le ossa.»

Il mattino seguente, il cielo su Cosenza sembrava una lastra di piombo, Brunetti arrivò in anticipo in ufficio,

la cartellina del caso Maddalena Stilo sotto il braccio e il volto segnato da una notte quasi insonne.

Sofia Giordan era già lì, seduta davanti al computer, gli occhi fissi su una schermata dell’archivio digitale della Regione Calabria,

«il progetto Radice non risulta nei documenti ufficiali del Ministero della Salute, ma ho trovato un file, senza autore,

nei registri del ’76, e riguarda una "collaborazione sperimentale tra enti assistenziali e istituti religiosi" per la "rieducazione psichiatrica femminile".»

Brunetti si massaggiò la fronte. «Tradotto: lager con crocifissi alle pareti.»

Entrò anche l’ispettore Damiano Serra, stavolta accompagnato da una donna alta, sui cinquant’anni, capelli grigi raccolti con

precisione militare, «capo, questa è la dott.ssa Elena Colaianni, consulente archivista della Procura di Catanzaro,

ha analizzato la catena di accesso al fascicolo 143/77.»

«Tre settimane fa», iniziò la Colaianni, «qualcuno ha consultato i documenti in modo non autorizzato, il tesserino appartiene a

un dipendente in pensione da due anni. Un errore informatico? O qualcuno ha usato la sua identità per accedere e sottrarre materiale.»

Brunetti la fissò. «Perché proprio adesso?»

«Perché», rispose la Colaianni, «nella stessa settimana è morto un ex degente del manicomio di Girifalco, annegato in una

fontana a Soverato,

si chiamava Domenico Arcadi, 81 anni, il suo nome compare nei registri del 1977 accanto a quello di Maddalena Stilo.»

Sofia sussurrò: «come se stessero cancellando ogni testimone.»

Brunetti si alzò, guardando il quadro appeso alla parete: un olio scuro della città vecchia, avvolta dalla nebbia.

«Se davvero c’è stato un progetto sperimentale coperto da enti religiosi e statali, e se una donna è morta per impedirne la

denuncia… allora non è solo un cold case,

è un avvertimento che dura da mezzo secolo.»

Serra annuì, «Girifalco ha chiuso nel ’79, quello che resta oggi è un rudere, ma gli archivi interni, se non sono stati bruciati,

dovrebbero trovarsi in un deposito a Tiriolo, sotto custodia dell’ASP.»

Brunetti si voltò verso la Colaianni «dottoressa, può ottenere un'autorizzazione per una verifica ispettiva come revisori storici?

Ufficialmente, cerchiamo atti sanitari degli anni ’70 per un progetto sulla chiusura dei manicomi.»

Lei annuì, «due giorni, e vi preparo anche dei pass.»

Brunetti tornò alla sua scrivania. «Nel frattempo, Damiano, tu rintraccia Antonio Berardi, l’ex infermiere, e tu Sofia,

approfondisci tutto su questo “Progetto Radice”, voglio nomi, enti, fondi, anche se sono nascosti in una nota a margine.»

Il cielo si stava schiarendo, ma nell’aria aleggiava una promessa d’inverno, e  di tempesta.

Il pomeriggio scivolava grigio tra i vicoli di Catanzaro Lido, quando il vicequestore Brunetti e l’ispettore Damiano Serra

scesero dalla macchina.

Di fronte a loro, un vecchio condominio anni Sessanta, intonaco sbiadito e balconi arrugginiti, l’appartamento di Antonio Berardi

si trovava al terzo piano, «Berardi è vedovo, vive solo, pensionato dal 1991, nessuna denuncia, nessun precedente,

ma ha lavorato in reparto a Girifalco per quasi quindici anni», disse Serra, controllando la nota sul taccuino.

Brunetti fece un cenno e suonò il campanello, nessuna risposta.

Riprovò.

Dopo qualche istante, la porta si aprì di pochi centimetri, un volto segnato dagli anni, pallido, quasi scolorito,

occhi chiari, incavati.

«Chi siete?»
«Polizia vicequestore Brunetti e ispettore Serra, dobbiamo parlarle di Maddalena Stilo.»

Un lungo silenzio, poi, la porta si aprì, l’odore che ne uscì era un misto di polvere e carta umida.

Berardi si sedette lentamente in una poltrona vicino alla finestra,

«sono passati quasi cinquant’anni… e ora tornate a chiedere di lei?»

Brunetti si sedette di fronte, senza prendere appunti, «non è mai stata chiusa per noi.»

Berardi annuì. «Era diversa, una donna vera, in un posto dove la verità non serviva, si prendeva cura dei

pazienti… come se fossero esseri umani, capisce? E questo dava fastidio.»

«A chi?» domandò Serra.

Berardi si guardò attorno, come se temesse le pareti. «C’era un uomo, non era del personale, lo chiamavano "il Dottore",

ma non portava camice,

veniva di notte, portava via i pazienti in uno stanzone nel seminterrato, dicevano che era per le "prove cliniche",

lei cominciò a scrivere, parlare.»

«E poi?» chiese Brunetti.

«Una sera, sparì.» Brunetti si alzò. «Cosa sa del Progetto Radice

Berardi tremò, poi, con voce bassa: «era il nome in codice, gli internati li chiamavano “i radicati”, quelli che non uscivano più.»

Tornati a Cosenza, Brunetti restò in ufficio oltre il tramonto.

La città al di là della finestra si era fatta cupa, con i lampioni tremolanti come candele in un altare spento, il collo gli doleva,

riaprì il fascicolo,

non poteva togliersi dalla testa quella frase di Berardi: i radicati.

Intanto, in archivio, l’ispettore Sofia Giordan stava catalogando alcuni faldoni quando notò qualcosa di strano, un vecchio

registro degli anni ’70 era stato reinserito nella sezione sbagliata, mancavano tre pagine,

non erano strappate, rimosse con precisione, taglio netto, chi le aveva prese sapeva cosa cercare.

Rientrata in ufficio, trovò Brunetti appoggiato con i gomiti alla scrivania, gli passò il registro, «qualcuno è tornato a rovistare

tra le nostre ombre, e

lo fa con precisione chirurgica.»

Brunetti sfogliò il volume. «Vuol dire che siamo sulla pista giusta.»

A quell’ora, Damiano Serra stava tornando a casa, aveva lasciato la macchina in via Riccardo Misasi, aveva percorso solo pochi

metri a piedi quando notò il rumore di passi dietro di sé, si voltò, nessuno, accelerò, un’ombra lo seguiva, distante

ma decisa, girò l’angolo, fece per prendere il telefono, non c’era campo, si fermò sotto un lampione,

il cuore che batteva più forte, un’auto nera, con i vetri oscurati, era parcheggiata poco più avanti, il motore acceso.

Quando fece per avvicinarsi, i fari si spensero di colpo, nessuno scese, l’auto partì lentamente, nessuna targa visibile,

riuscì a vederla.

Damiano si fermò davanti al portone, il respiro affannato, una busta marrone era infilata nella cassetta della posta,

nessun mittente, nessun indirizzo, dentro, una sola frase scritta a mano:

“Chi scava troppo a fondo finisce sotto.”

Il deposito archivistico dell’ASP a Tiriolo si trovava in una ex scuola elementare, abbandonata da tempo e riadattata con

un’efficienza tutta calabrese: scaffali impolverati, luci intermittenti, un odore persistente di muffa e carta fradicia.

L’autorizzazione della dott.ssa Colaianni aveva funzionato, un impiegato svogliato li accompagnò fino alla sezione "1970–1979 – psichiatria".

Poi li lasciò soli, senza nemmeno chiedere un documento, Brunetti e Sofia indossarono i guanti e iniziarono a sfogliare,
nomi, numeri, registri dei ricoveri, plichi rilegati con spago.
Il tempo sembrava aver stratificato tutto come polvere di lapide.

«Ecco il 1977,» disse Sofia, tirando giù un faldone segnato “girifalco / chiusura anticipata – reparti femminili”.

Tra le pagine, trovarono una relazione senza firma, ma con intestazione del reparto “Osservazione Intensiva” datata novembre ’77.

Descriveva sinteticamente “anomalie comportamentali di operatori sanitari”, e tra le righe, un riferimento freddo:

“Interferenze interne al protocollo, si consiglia il trasferimento coatto o la sospensione dell’infermiera STILO, c

on segnalazione discreta all’autorità ecclesiastica.” Brunetti rimase in silenzio, poi Sofia, cercando tra le tasche del faldone,

trovò una foto, bianco e nero, malconcia.
Mostrava un gruppo di cinque uomini in giacca e cravatta, di fronte a un portone metallico, uno teneva in mano una cartellina con

una croce latina rovesciata e le lettere: P.R.77, dietro la foto, una scritta a matita:
“Secondo livello – archivio sotterraneo.”

Sofia guardò Brunetti. «Archivio sotterraneo? In un manicomio chiuso nel ’79?» Brunetti infilò la foto nel taccuino,

«se è ancora lì, lo troveremo.»

All’uscita dal deposito, notarono un dettaglio che li fece gelare.

La portiera della loro auto era leggermente aperta, nessun allarme, nessun furto apparente, sotto il tergicristallo,

un biglietto scritto a penna, con inchiostro rosso:
“Non scendete nei sotterranei, i morti parlano solo ai disperati.”

Brunetti si guardò attorno, niente, nessuno.

Ma ormai lo sapeva, non erano più soli.

Il giorno dopo, la pioggia aveva lasciato spazio a un cielo basso, color stagno. Cosenza sembrava trattenere il fiato,

in Questura l’aria era più densa, come se il mistero avesse peso.

Sofia entrò nell’ufficio di Brunetti con un’espressione che non lasciava spazio a interpretazioni, «abbiamo un problema.»

«Uno nuovo o uno vecchio?» rispose lui, senza alzare lo sguardo dai documenti «Il dipendente che ha firmato l’autorizzazione

di accesso ai faldoni di Tiriolo non risulta negli elenchi attivi dell’ASP, è andato in pensione nel 2020, ma la firma è sua,

depositata nei sistemi interni, identica.» Brunetti si fermò. «Clonazione digitale?»

«O collaborazione interna, o qualcuno dentro gli archivi ci sta aiutando, o spiando.» Damiano bussò e si affacciò,

non sorrideva, «abbiamo rintracciato l’ex tecnico sanitario che lavorava al piano -2 del reparto maschile, si chiama Nicola Sgrò,

e vive isolato in una contrada sopra Feroleto Antico, non ha voluto parlare al telefono, ma ci ha detto una cosa,

“portatevi un registratore, io parlo solo una volta.”»

 

 

 

                                        ...........continua nel romanzo completo