10 ottobre
SCENA 1. CARTELLO
Calabria, Amantea, 1 luglio 1806.
SCENA 2. ESTERNO NOTTE. MARE
Sul mare nero sono ancorate alcune navi con le vele bianche.
Si vedono un vascello, due fregate, due bricks e tre lancioni della marina britannica.
Il vascello e le fregate aprono il fuoco.
SCENA 3. Esterno notte. Amantea
Le palle di cannone si schiantano contro il paese situato su una roccia tagliata a picco sul mare. Intorno vi sono solide mura e due bastioni che sormontano due porte, una a nord e una a sud.
Sull’antico forte sventola una bandiera francese.
SCENA 4. Esterno giorno. Mare
Le navi inglesi continuano a cannoneggiare.
SCENA 5. Esterno giorno. Amantea. Spiaggia
Sulla spiaggia ai piedi del paese centinaia di uomini, donne e bambini sventolano bandiere borboniche e agitano le braccia. Alcuni amanteoti, guidati da “Gal gal”, un giovane marinaio con gli orecchini e il pantalone a strisce, trascinano in acqua un gozzo e si dirigono remando verso la fregata inglese.
SCENA 6. Esterno giorno. Mare
Il gozzo si avvicina alla nave e “Gal gal” parla con i marinai affacciati dal ponte della fregata.
SCENA 7. Esterno giorno. Fregata inglese
Sulla nave gli ufficiali parlano tra loro. L’ammiraglio Sidney Smith si rivolge ai suoi ufficiali e ordina.
Ammiraglio Smith: Stop the cannonades. The population is rebellious
and the French garrison has surrendered.
(Fate sospendere i cannoneggiamenti. La popolazione è insorta
e la guarnigione francese si è arresa).
SCENA 8. Esterno giorno. Amantea. Forte
La bandiera francese viene ammainata e viene issata la bandiera borbonica.
SCENA 9. Esterno notte. Fiumara
Una piccola colonna di soldati napoleonici risale frettolosamente la fiumara per inoltrarsi nelle montagne. Insieme a loro ci sono uomini e donne carichi di bagagli. Gruppi di popolani armati inseguono la colonna lanciando pietre e gridando: “Jativinni francisi di merda. Sparano anche colpi di moschetto e due soldati cadono colpiti a morte. La colonna francese scompare nel bosco, gli inseguitori si fermano e alcune popolane spogliano i caduti che rimangono completamente nudi.
SCENA 10. Esterno giorno. Amantea. Porta sud
Venti uomini dall’aspetto poco rassicurante sono assembrati davanti alla porta sud del paese. Sono briganti e quasi tutti indossano cappelli a cono adorni di nastri rossi che cadono giù per le spalle, giacche e pantaloni dai colori vivissimi, giubbetti con i bottoni d’argento, sciarpe scarlatte di seta ravvolte alla vita, uose di cuoio legate alle gambe, coltelli catalani alle cintole e fiaschette ad armacollo. “Mele”, il loro capo, indossa un giaccone e un cappello di ufficiale della marina inglese su cui sono attaccate medaglie e un’immagine della Madonna e un crocefisso di legno. Ha una lettera in mano e la porge a un soldato borbonico.
Capo brigante Mele: Sugnu ‘u capu brigante Giuseppe Mele.‘A regina Carulina
m’a dittu de venire all’Amantia ppe’ cumbattere li francisi.
(Sono il capo brigante Giuseppe Mele. La regina Carolina mi ha detto di
venire ad Amantea per combattere i francesi).
Il capo brigante indica con la mano i suoi uomini che portano orecchini, anelli e collane d’oro.
Capo brigante Mele: Eranu tutti briganti, ma mò simu diventati surdati e fannu a
guerra ppe’ re Firdinandu.
(Erano tutti briganti, ma ora sono diventati soldati e fanno
la guerra per Re Ferdinando).
I briganti ridono e alcuni sono senza denti.
SCENA 11. Esterno giorno. Amantea. Vicolo I
Briganti con i fucili a tracolla accompagnano un giovane in groppa a un asino.
Il prigioniero ha in testa un berretto frigio e sul petto una fascia con il tricolore francese. Due popolane al suo passaggio gli sputano addosso e i bambini, incitati da “Pisci rè”, un ragazzino dagli occhi vivaci e con le orecchie a sventola, gli scagliano pietre. Il giovane sull’asino è sanguinante e terrorizzato. Alcuni musicanti, accompagnandosi con tamburi, tamburelli e grancasse, iniziano a cantare l’inno sanfedista.
Musicanti: Viva viva Firdinandu, nuostru patre nuostru re.
Viva ancora Carulina, nostra matre ‘a regina.
Se ribbellarrunu li calavrisi, ppe’ distruggere li francisi.
Li francisi chi sunnu cani, tuttu su tiempu currunu a mare.
E ppe’ mare ci stannu l’inglesi, ca ‘un ni lassanu navigare.
Tutti i francisi, avimu d’ammazzare.
(Viva viva Ferdinando, nostro padre nostro re. Viva ancora Carolina, nostra madre la
regina. Si ribellarono i calabresi, per distruggere i francesi. I francesi che sono
cani, tutto il tempo corrono a mare. Per il mare ci sono gli inglesi, che non li
lasciano navigare. Tutti i francesi dobbiamo ammazzare).
SCENA 12. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio
Il corteo attraversa la piazza dove c’è la chiesa di Sant’Antonio. I musicanti continuano a suonare e cantare.
Musicanti: Viva viva Firdinandu, ch’avia piersu su bieddru regnu.
L’avìa persu cu l’ inganno, viva viva Firdinandu.
St’arburu senza rariche, sta cuòppula senza capu,
‘ ntra lu Regnu a ripubblica ‘ un resta.
E’ finita l’uguaglianza, è finita a libertà.
Viva Diu e sua Maistà, li Giacubbini fora de ccà.
(Viva viva Ferdinando, che aveva perso questo regno bello. L’aveva perso con l’inganno, viva viva Ferdinando. Quest’albero senza radici, questa coppola senza testa, nel regno la Repubblica non resta. E’ finita l’uguaglianza, è finita la libertà. Viva Dio e sua maestà, i giacobini fuori di qui).
Malerva, una donna corpulenta, interroga “Pisci rè”.
Malerva: Chin’è?
(Chi è?).
Il bambino risponde prontamente.
Pisci rè: E’ unu di figli du miedicu Perciavalle “u sfregiatu”, chiru ca
studiava a Napuli ‘ppe diventari avucatu. E’ nu giacubbinu, ja diciennu
ca volìa a libertà e l’uguaglianza.
(E’ uno dei figli del medico Perciavalle “lo sfregiato”, quello che studiava a Napoli per diventare avvocato. E’ un giacobino. Andava dicendo che voleva la libertà e l’uguaglianza).
Malerva: Ma allura è nu farabuttu?
(Ma allora è un farabutto?)
La donna riprende.
Malerva: E addua ‘u portati?
(E dove lo portate?).
Interviene “Mele” ridendo.
Capo brigante Mele: U stamu portannu n’galera, prima l’interrogamu e pua
l’ammazzamu!
(Lo stiamo portando in prigione, prima lo interroghiamo e poi lo
ammazziamo!).
SCENA 13. Interno notte. Sartoria
Nicola il sarto ripara la giubba di un ufficiale borbonico. Nella bottega si vedono appesi pantaloni, mantelli e camicie. Seduto di fronte a lui c’è il medico “Salomone”, un uomo magrissimo con gli occhiali rotondi dalla montatura d’argento. Il sarto smette di cucire e guarda nella Mdp.
Sarto: Chi volìti ca vi dicu, nun mi sugnu mai ‘nteressatu di guverni. Viju però ca ‘ntru paise frati si scannano tra loru all’umbra di bannnere straniere. Viju puru che ‘a n’attaccare sù forestieri e a ni difenda sù forestieri.
(Che volete che vi dica, non mi sono mai interessato di governi. Vedo però che in paese fratelli si scannano tra loro all’ombra di bandiere straniere. Vedo pure che ad attaccarci sono forestieri e a difenderci sono forestieri).
Interviene “Salomone”.
Salomone: Ha ragione mastro Nicola. Qui non c’è solo una guerra tra inglesi e francesi, ma anche tra lealisti e giacobini. C’è una guerra civile, una guerra fratricida. Tutta la Calabria è divisa a metà. Ci sono famiglie che combattono contro famiglie, fratelli che combattono contro fratelli, paesi che combattono contro paesi. Ormai non sono più la patria e la religione a muovere gli animi, ma il risentimento, l’odio e la vendetta.
Il sarto guarda nella Mdp.
Sarto: Di chiru chi sacciu iu, cierti paisani sù stati ammazzati cchiù ppe’ viecchi rancuri e ‘ppe diebiti, ca ppe’ amure di la patria!
(Da quello che so io certi compaesani sono stati ammazzati più per vecchi rancori e per debiti, che per amore della patria!).
SCENA 14. Esterno notte. Amantea. Piazza piccola
Perciavalle, un uomo anziano dai capelli corti e dall’aspetto signorile, sta entrando frettolosamente in casa. Si gira, guarda nella Mdp e si vede una cicatrice sull’occhio destro.
Perciavalle: Non voglio parlare! Non voglio parlare!
SCENA 15. Interno notte. Studio
“Marat”, un giacobino di Amantea, parla seduto di spalle dietro una scrivania su cui si notano una piccola scatola d’argento e un bastone col pomo d’avorio scolpito con una testa di lupo. Davanti a lui c’è un mobile pieno di libri.
Marat: Mi chiamano ‘Marat’ perché sono un “patriotta” e venero la repubblica, ma la gente rozza non crede che sia una cosa buona. Il popolino non ha una mentalità rivoluzionaria e non pensa ad un mondo libero, perché è contrario ad ogni cambiamento. E’ ignorante, cieco e reazionario. Dice di combattere per il suo amato sovrano, ma almeno fosse un re coraggioso e onesto! Tutti sanno che Ferdinando è un cornuto e un vigliacco. Appena ha visto il pericolo è scappato in Sicilia e il suo degno esercito si è sbandato senza sparare un colpo di fronte a un nemico dieci volte inferiore.
L’uomo comincia a tossire e, senza mostrare il volto, prende una pillola dalla scatola d’argento e la ingoia. Prosegue parlando sempre di spalle alla Mdp.
Marat: Alcuni amici pensano che i francesi hanno fatto poco per attirarsi le simpatie della popolazione. Saccheggiano, incendiano, stuprano e massacrano per imporre le loro idee politiche e religiose, ma io dico che hanno fatto troppo poco. Qui in paese da giorni siamo in mano a bande di galeotti liberati dalle galere e lazzaroni della peggiore specie venuti da ogni parte della regione.
Questi briganti, ben pagati da quella puttana della regina Carolina, sfogano la loro brutalità. A mio fratello, capo giacobino, hanno tagliato la testa, l’hanno infilzata su una picca e l’hanno portata per le vie del paese. I suoi amici li hanno portati a mare e li hanno affogati. Io sono riuscito a salvarmi ma mi cercano e devo stare nascosto fino a quando non ritorneranno i francesi.
SCENA 16. Interno notte. Cantina
Nella cantina buia un gruppo di persone guardano due giovani che giocano a morra. “Ogliaruolu”, un uomo con la fronte solcata da profonde rughe, sta seduto da solo guardando fisso il bicchiere di vino. L’oste batte l’acciarino, accende la miccia e appicca il fuoco ad una lucerna la cui fiammella rischiara un po’ la stanza. Prende dell’acqua da una brocca e la versa in un fiasco di vino mentre guarda nella Mdp.
Oste: Si, ‘u sanno tutti ca mintu acqua ‘ntra lu vinu, ma chissu passa ‘u cummientu. Si jati ‘ntra l’uatre cantine ‘u vino è fatto ‘ccu acitu e acqua. L’amure de nua calavrisi ppe’ re Firdinando vò puru su sacrificiu.
(Si, lo sanno tutti che aggiungo acqua al vino, ma questo offre il convento. Se andate nelle altre cantine il vino è fatto d’aceto e acqua. L’amore di noi calabresi per re Ferdinando richiede anche questo sacrificio).
“Ogliaruolu”, un po’ ubriaco, sentendo le parole dell’oste, parla guardando nella Mdp.
Ogliaruolu: I calavrisi ppe’ Firdinando? Ma nun dicimu fissarie. Quannu misi fà Re Giuseppe è sciso n’Calabria, l’annu tutti festeggiatu e ci hannu fattu i cumprimenti I calavrisi curranu sempe arrieti aru carru du vinciture.
(I calabresi per Ferdinando? Ma non raccontiamo fesserie. Quando mesi fa Re Giuseppe è venuto in Calabria tutti lo hanno festeggiato e gli hanno fatto i complimenti I calabresi corrono sempre dietro al carro del vincitore).
I giocatori di dadi e i loro amici guardano “Ogliaruolu” e l’oste lo rimprovera con tono severo.
Oste: Ogliaruolu, statti cittu, ca sì ‘mbriacu e ti po minta ‘ntra li guai.
(Ogliaruolu, stai zitto che sei ubriaco e ti puoi mettere nei guai).
“Ogliaruolu” beve d’un fiato il bicchiere di vino.
Ogliaruolu: Nun mi spagnu ‘i nessunu, staiu diciennu ‘na cosa ca sannu tutti. Oje all’Amantia gridanu ‘ppe Firdinandu, ma si dumani avisseru de venire n’atra vota i francisi, facerrano festa a Bonaparte. A gente vò bene all’unu o all’autru re, non pecchì li piacia, ma ppe’ interesse o ppe’ paura. I giacubbini si su tagliati i capiddri ‘ppe si fa canusce, ma è bastatu ‘u tiempu ca li sù crisciuti ppe’diventare monarchici! Nu saccu ‘i surdati de l’esercito borbonicu sunnu passati cu Napuliune ‘ntru tiempu de ‘na nottata.
(Non mi spavento di nessuno, sto dicendo una cosa che sanno tutti. Oggi ad Amantea gridano per Ferdinando, ma se domani verranno nuovamente i francesi farebbero festa a Bonaparte. La gente vuole bene all’uno o all’altro sovrano non perché gli piace, ma per interesse o per paura. Molti giacobini si sono tagliati i capelli per farsi riconoscere, ma è bastato il tempo che gli sono cresciuti per diventare monarchici! Molti soldati dell’esercito borbonico sono passati con Napoleone nel tempo di una notte).
SCENA 17. Cartello
SCENA 18. Esterno giorno. Fiumara
Un ragazzo in divisa suona il tamburo precedendo una colonna di soldati dell’esercito napoleonico. In prima fila si vedono il generale Verdier con i suoi ufficiali e i portabandiera. Seguono un reggimento di linea e di fanteria, un battaglione di guardie civiche e compagnie di voltigeurs. Il sergente Dupont, in testa al suo plotone, inizia ad intonare con voce possente “La Carmagnole”.
Sergente Dupont: Madam’ Véto avait promis (bis)
De Faire égorger tout Paris (bis)
Mais le coup a manqué
Grâce à nos canonniers
(Refrain)
Dansons la Carmagnole,
Vive le son, vive le son!
Dansons la carmagnole,
Vive le son du canon!
Monsieur Véto avait promis (bis)
D’être fidèle à soy pays (bis)
Mais il y a manqué
Ne faisons plus d’quartier
(Refrain)
(La signora Véto aveva promesso di fare sgozzare tutta Parigi, ma ha mancato il colpo grazie ai nostri cannonieri (ritornello). Balliamo la Carmagnola, viva il suono, viva il suono! Balliamo la Carmagnola, viva il suono del cannone! Il signor Véto aveva promesso di essere fedele al suo paese, ma ha mancato il colpo, non abbiamo più pietà).
SCENA 19. Interno giorno. Amantea. Chiesa di Sant’Antonio
Il sagrestano tira con forza le corde delle campane.
SCENA 20. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio. Campanile
Le campane suonano.
SCENA 21. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta
Fuori campo si sentono le campane a stormo. Gli assediati si affacciano dalle mura e, alla vista dei francesi, sventolano bandiere borboniche, gridano frasi ingiuriose, si calano le brache e mostrano il sedere.
SCENA 22. Esterno giorno. Mare
Il sole tramonta sul mare.
SCENa 23. Esterno notte. Accampamento napoleonico
I soldati francesi bivaccano intorno ai fuochi. Gustave Charpentier, un sottufficiale dei voltigeurs, è seduto insieme al caporale polacco Jakobosk di fronte ad un paiolo dove bolle orzo. Riempie col mestolo una tazza, vi versa un po’ di acquavite e comincia a sorseggiare. Ha l’aria stanca e sulle spalle una pesante coperta. Guarda nella Mdp e parla con calma.
Sergente Charpentier: Je m’appelle Gustave Charpentier et je suis un sous-officier de voltigeurs. Je viens de la basse Lorraine et, lorsque j’étais civil, j’étais couturier. C’est dupuis le début de la révolution que fais mes armes et je sens que nous sommes en train de partecipir à une mission historique. Nous ne sommes pas venus en Calabre pour voler et tuer mais avec une sainte raison qui est celle de construire un monde libre et indépendant.
Tous les despotismes et les privilèges qui existaient dans les États italiens seront détruits, toutes les formes d’esclavage moral et social qui se sont développées sous le régime féodal seront combattues. Avec nos troupes nous sommes en train d’exporter les idéaux de la Révolution française: liberté, egalité, fraternité. Nous l’exportons avec les fusils et les canons non parce que nous aimons la guerre mais parce que nous y sommes forcés. La noblesse et le clergé ne veulent pas perdre leurs privilèges et se servent de gens pauvres et superstitieux pour nous combattre. Sincèrement, je ne comprends pas la haine de la population envers nous; les gens devraient nous remercier pour ce que nous sommes en train de faire.
(Mi chiamo Gustave Charpentier e sono un sottufficiale dei voltigeurs. Vengo della Bassa Lorena e da civile facevo il sarto. E’ dall’inizio della rivoluzione che sono sotto le armi e sento che sto partecipando ad una missione che sconvolgerà il mondo e la storia. Noi non siamo venuti in Calabria per rubare e uccidere, ma per un santo scopo che è quello di costruire un mondo libero e indipendente. Tutti i dispotismi e i privilegi che c’erano negli stati italiani noi li distruggeremo, tutte le schiavitù morali e sociali costruite dal sistema feudale noi le combatteremo.
Con le nostre divisioni stiamo esportando gli ideali della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità. Li stiamo esportando con i fucili e i cannoni non perché amiamo la guerra ma perché siamo costretti. Nobili e chierici non vogliono perdere i loro privilegi e si servono della gente povera e superstiziosa per combatterci. Francamente non capisco l’odio della popolazione verso di noi, dovrebbe ringraziarci per quello che stiamo facendo).
Il caporale Jakobosk, dopo avere svuotato la pipa battendola sullo stivale, inizia a parlare guardando anche lui nella Mdp.
Caporale Jakobosk: Je m’appelle Jakobosk et je suis polonais. Notre armée, commandée par le général Napoléon Bonaparte, a pour mission de nous faire entamer une nouvelle ère. Partout, abattre les monarchies séculaires et construire des républiques modernes. Pour changer les choses il faut du temps et de la patience.
(Mi chiamo Jakobosk e sono polacco. Il nostro esercito, comandato dal generale Napoleone Bonaparte, è composto da soldati di ogni nazione e ha la missione di dare inizio ad una nuova era. Abbattere dovunque le secolari monarchie e costruire le moderne repubbliche. Per fare le cose ci vuole però tempo e pazienza).
Jakosk guarda il suo compagno e sorride.
Jakosk: Qui veut manger rapidement sème des radis mais doit se contenter de racines; qui veut manger du pain sème du blé mais doit attendre une année.
(Chi vuole mangiare presto semina ravanelli ma deve accontentarsi di radici; chi vuole mangiare pane semina grano ma deve aspettare un anno).
SCENA 24. Esterno giorno. Amantea. Bastione porta sud
Sulle mura della porta sud gli assediati osservano vigili e preoccupati. Si notano soprattutto i briganti con le facce barbute sotto i cappelli a cono, le carabine ad armacollo e le else dei pugnali che escono dalle tasche delle brache.
SCENA 25. Esterno giorno. Amantea. Porta sud.
Poco distante dalle mura della porta sud, Berthelot, un ufficiale francese, sguaina la sciabola e incita i suoi alla battaglia.
Berthelot: Vive la France révolutionnaire! Vive le général Napoléon Bonaparte !
(Viva la Francia rivoluzionaria! Viva il generale Napoleone Bonaparte!).
I fucilieri della guardia scaricano i loro moschetti contro i lealisti. Gruppi di soldati, in ordine sparso, coperti dal fuoco dei compagni, cercano di scavalcare le mura con lunghe scale di legno. La fanteria, incitata dal rullo dei tamburi, assalta la porta del paese, ma gli insorti, incitati dai capi briganti Mele e Malanima, reagiscono sparando, buttando pietre e acqua bollente. Le fucilate si confondono a urla, bestemmie e voci di comando. Diversi soldati napoleonici cadono morti o feriti. Fra loro, riverso a terra, il tamburino della colonna con accanto il suo strumento. Un trombettiere francese suona la ritirata e gli assediati esultano gridando: “Morte ari francisi! Morte ari giacubbini!” (Morte ai francesi, morte ai giacobini).
SCENA 26. Esterno notte. Fiumara
La colonna francese risale in fretta la fiumara per inoltrarsi nelle montagne.
SCENA 27. Esterno notte. Amantea. Bastione porta sud
Gli insorti sulle mura sparano colpi di fucile e urlano dalla gioia.
SCENA 28. Esterno notte. Amantea. Porta sud
Diversi popolani con grandi ceste e torce in mano escono dalla porta e raccolgono fucili, pistole e sciabole. Le donne spogliano i soldati e il tamburino uccisi che rimangono completamente nudi. Due voltigeurs, tra cui il sergente Charpentier, ferito alla fronte, vengono fatti prigionieri da un gruppo di briganti e popolani guidati dal brigante Mele.
SCENA 29. Esterno giorno. Spianata
Tredici giacobini sono disposti in fila con le mani legate dietro la schiena. Lontano un gruppo di donne con i loro figli piangono, si inginocchiano e chiedono pietà. Il prete Montoja con un crocefisso in mano dà conforto ad un “patriotta” ma questi rifiuta. Briganti, popolani ed ex ufficiali dell’esercito borbonico puntano i moschetti a pochissima distanza dai petti dei prigionieri e sparano. I giacobini stramazzano a terra e due rantolano feriti. Mele si avvicina e li trafigge con la sciabola.
SCENA 30. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio
Davanti alla chiesa alcune donne stanno intorno ad un grande calderone dove bolle acqua. Vicino, su un lungo tavolo, ci sono ceste piene di maccheroni freschi e fiaschi di vino. Sulle scale “Pisci rè” e i suoi amici guardano alcuni musicanti che accordano gli strumenti. Poco distante frate Michele, un cappuccino dalla folta barba nera, è seduto su una sedia per confessare alcuni briganti che aspettano con i cappelli in mano. “Malanima”, un giovane dai lunghi capelli neri, con gli orecchini e un elegante vestito di velluto nero gli si avvicina e si inginocchia.
Malanima: Frate, io e la banda mia amu campatu d’ammazzamienti e d’arrobbamienti puru quannu un c’erano ‘i francisi. ‘Ppe nua stare ara macchia è nu lavuru, nu modu pe’ campare buonu. Mangiamu carne e pane iancu tutti i iuorni e vestimu miegliu di li galantuomini. Simu briganti e sacciu ca cussì restàmu puru s’averra di venire torna Firdinando.
(Frate, io e la banda mia abbiamo vissuto di rapimenti e di furti anche quando non c’erano i francesi. Per noi stare alla macchia è un mestiere, un modo per campare bene. Mangiamo carne e pane bianco tutti i giorni e vestiamo meglio dei galantuomini. Siamo briganti e so che tali restiamo anche se dovesse tornare Ferdinando).
SCENA 31. Interno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio
Padre Montoja da le ostie sacre al capo brigante Mele e agli uomini della sua banda che sono inginocchiati davanti all’altare.
SCENA 32. Interno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio
Frate Michele sta confessando Malanima.
Frate Michele: Caro Malanima, so chi sei. Ti conosciamo tutti per fama. La tua banda ha terrorizzato la provincia, ma oggi chi combatte nelle fila dell’esercito cristiano è purificato dalla stessa mano di Dio. Voi in questo momento siete dei crociati e io ti assolvo da tutti i tuoi peccati in nome di Cristo, della Madonna e dei santi.
“Malanima” si fa il segno della croce, si alza e si avvia verso la chiesa. Un compagno si avvicina al frate e si inginocchia.
SCENA 33. Interno giorno. Chiesa di Sant’Antonio
“Malanima” entra nella chiesa affollata di gente. Le donne sono sedute tra i banchi, mentre gli uomini, quasi tutti armati di pistole e pugnali, sono in piedi e hanno il cappello in mano. Sull’altare la nobildonna Laura De Lauro sta leggendo una lettera. Alle sue spalle, nelle mani della statua di sant’Antonio, si vedono pezzi di catene.
Nobildonna Laura: A voi, popolo di Amantea, vanno i miei sinceri ringraziamenti e le mie preghiere per aver difeso con eroismo la santa religione e la santa monarchia dagli odiati nemici francesi e giacobini. A guerra finita il nostro amato re e io stessa sapremo ricompensavi per il vostro coraggio, il vostro sangue e la vostra fedeltà. Vi benedico tutti. Vostra amata regina Carolina.
La nobildonna Laura piega la lettera e si rivolge ai presenti un po’ emozionata.
Nobildonna Laura: Questo è ciò che ci ha scritto la nostra amata regina. La mia famiglia, come ha già fatto anni fa’ dopo la fine della repubblica napoletana, ha voluto che oggi si celebrasse un Te Deum per ringraziare Nostro Signore di averci liberato dal canagliume ateo e libertino. Al termine della messa suoneremo tarantelle e mangeremo maccheroni.
Una giovane nobildonna comincia a cantare il Te Deum.
Cantante: Te Deum laudamus,
te Dominum confitemur.
Te aeternum Patrem,
Omnis terra veneratur.
Tibi omnes Angeli,
tibi caeli et universae Potestates,
tibi Cherubim et Seraphim,
incessabili voce proclamant.
Sanctus, Sanctus, Sanctus,
Dominus Deus Sabaoth.
Pleni sunt caeli et terra
maiestatis gloriae tuae.
Te gloriosus Apostolorum chorus,
te Propetharum laudabilis numerus,
te Martyrum candidatus
laudat exercitus.
Te per orbem terrarum
Sancta confitetur Ecclesia,
Patrem immensae maiestatis;
venerandum tuum verum et unicium Filium,
Sanctum quoque Paraclitum Spiritum.
Tu rex gloriae, Christe.
Tu Patris sempiternus es Filius.
Tu, ad liberandum suscepturus Hominem,
non horruisti Virginis uterum
SCENA 34. Esterno giorno. Amantea. Vicolo II
Nel vicolo Rosinella sta spidocchiando i capelli di sua figlia Mariettina con un pettine d’osso. La donna sorride e guarda nella Mdp.
Rosinella: E’ giustu ammazzare i giacubbini! Me li ricuordu buonu, parìano tutti ricchiuni. Purtavano i capiddri curti e avianu vestiti de pannu turchinu ccu buttuni di matreperla. Si facìano chiamare “patriotti” e si muotichiavanu ‘ntra le vie de’ l’Amantia cumu si fosseru a Parigi. ‘Ntra chiazza nu iurnu hannu chiantatu nu travu e ci ‘annu appicatu pampine, nastri de tri culuri e ‘nu cappieddru. Dicìano ch’era l’arvulu da libertà e ca volianu l’uguaglianza. Ma io dicu: picchì certi galantuomini averranu ‘i voliri l’uguaglianza? Picchì gente ricca vò diventare cumu li povari?
(E’ giusto ammazzare i giacobini! Me li ricordo bene, sembravano tutti ricchioni. Portavano i capelli corti e avevano vestiti in panno turchino con bottoni di madreperla. Si facevano chiamare “patriotti” e sculettavano nelle vie di Amantea come se fossero a Parigi. In piazza un giorno hanno piantato un tronco e ci hanno appeso foglie, nastri tricolori e un cappello. Dicevano che era l’albero della libertà e che volevano l’uguaglianza. Ma io dico perché dei galantuomini dovrebbero volere l’uguaglianza? Perché gente ricca vuole diventare come i poveri?).
La donna riprende a pettinare la ragazza, poi si ferma e guarda nuovamente nella Mdp.
Rosinella: I francisi? I francisi sù cumu i giacubbini! Chi sunnu venuti a fari?
Ppe’ ‘nteresse!
(I francesi? I francesi sono come i giacobini! Che sono venuti a fare?
Per interesse!).
La donna sorride.
Rosinella: Cumu dicia a canzune:
‘Su bbenuti li francisi, autre tasse ci hanno misu.
Libertè, egalitè e fraternitè,
io arruobbo a te, e tu arruobbi a me’.
(Come dice la canzone: ‘Sono venuti i francesi, altre tasse ci hanno messo.
Libertà, eguaglianza e fraternità, io rubo a te, e tu rubi a me’).
La donna si rivolge alla figlia Mariettina.
Rosinella: Marietti’, fa sente ‘a poesia ca dicia sempre zu Peppinu!
(Mariettina, fai sentire la poesia che dice sempre zio Peppino!).
La bambina fa spallucce facendo capire che non ne ha voglia. Rosinella guarda nella Mdp.
Rosinella: Fratima Peppinu si l’ha ‘mparata quannu è juto a Napuli ccu ru
cardinale Ruffo.
(Mio fratello Peppino l’ha imparata quando è andato a Napoli con il cardinale Ruffo).
Rosinella insiste scuotendo la figlia.
Rosinella: E da’ Mariettì, nunn’avire vrigogna!
(E dai Mariettì, non avere vergogna!).
La bambina convinta si alza e recita la poesia mentre guarda nella Mdp.
Mariettina: Or che troncato è l’albero, Sire ritorna al trono.
Lo scettro e l’ostro sono, già preparati a te.
La libertà chimerica, perà tra fuoco e sangue.
Muoia il veleno e l’angue, muoia la libertà.
Ai nostri piè trafitti, cadano i giacobini.
E i franchi cisalpini, muoiano tutti or or.
Or che troncato è l’albero, ognun cantando intona.
Evviva la corona, de Ferdinando re.
La mamma mette una mano sulla spalla della figlia e guarda orgogliosa nella Mdp.
Rosinella: Ma cumu ‘a dicia bella! E’ ‘na vera attrice!
(Ma come la dice bella! E’ una vera attrice!).
SCENA 35. Esterno giorno. Amantea. Vicolo III
‘Ntonetta e sua zia Annina, sedute davanti alla porta di casa, stanno frantumando pietre di sale dentro i mortai. Di fronte a loro c’è “Gruongu”, un anziano con una giubba, pantaloni a strisce e un cappello di lana. ‘Ntonetta parla con l’uomo che ripara una grande cesta di canne intrecciate.
Ntonietta: Nua fimmine simu stuffe di ‘ssa guerra.
(Noi donne siamo stufe di questa guerra).
Interviene l’uomo.
Gruongu: A nuddru piace ‘a guerra, ma ci vò, pecchì sinnò ‘i francisi si piglianu
‘i terre e ni fannu siervi.
(A nessuno piace la guerra, ma è necessaria, perché altrimenti i francesi si pigliano
le terre e ci fanno servi).
‘Ntonetta smette di pestare il sale e risponde decisa.
Ntonietta: E chini ‘i tena ‘i terre? E nua fimmine un simu già serve? ‘Ppe gente cumu a nua, vivare sutt’i francisi o li borboni è ‘a stessa cosa. Sempre pezzenti rimanimu!
(E chi ce l’ha le terre? E noi donne non siamo già serve? Per gente come noi vivere sotto i francesi o i borboni è la stessa cosa. Sempre pezzenti rimaniamo!).
Gruongu: Ntoniè, ‘a vita nunn’ è fatta sulu di cancariare e dorme! Ci sunnu autre cose ‘mportanti cumu la patria, la famiglia e l’onore. I surdati di Napuliune si futtano ‘i fimmine e l’appestano curu male francise. Nue masculi avimu di difennere l’onore.
(Antonietta, la vita non è fatta solo di mangiare e dormire! Ci sono altre cose importanti come la patria, la famiglia e l’onore. I soldati di Napoleone si fottono le femmine e le appestano con il male francese. Noi maschi dobbiamo difendere l’onore).
Ntonietta: I calavrisi s’arricordano di l’onure sulu quannu li cummena. E quannu ‘u barune adocchia ‘na fimmina e si la futta, picchì mariti e fidanzati ‘un sunnu gelusi?
(I calabresi si ricordano dell’onore solo quando gli conviene. E quando il barone adocchia una donna e se la fotte perché i mariti e i fidanzati non sono gelosi?).
Interviene il vecchio infastidito.
Gruongu: Vua fimmine aviti sempre ‘na risposta ppe’ tutto, siti a causa e tutti i mali. Quannu cummanna ‘na fimmina, a casa va’ a ruvina. Ha cummannatu e sta cummannannu Carulina e ‘u regnu è jutu a piezzi!
(Voi donne avete sempre una risposta per tutto, siete la causa di tutti i mali. Quando comanda la femmina, la casa va in rovina.. Ha comandato e sta comandando Carolina e il regno è andato a pezzi!).
SCENA 36. Esterno giorno. Amantea. Vicolo IV
Un mendicante, avvolto in un lacero mantello e con un grande cappello in testa, sale il vicolo appoggiandosi a un bastone. Si ferma per prendere fiato, si toglie il cappello e parla guardando nella Mdp dopo essersi asciugato il sudore della fronte.
Mendicante: Giacubbini o sanfedisti? Francisi o borboni? Io signu ppe’ chini mi duna de dormire, de vivere e de mangiare!
(Giacobini o sanfedisti? Francesi o borboni? Io parteggio per chi mi dà da dormire, da bere e da mangiare!).
SCENA 37. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta.
“Malanima”, seduto con i suoi compagni, guarda alcuni operai che stanno sistemando un muro. Delle donne trasportano pietre dentro grandi ceste e le scaricano vicino ai muratori. Il giovane brigante guarda nella Mdp.
Malanima: I francesi si sù ritirati, ma ‘un criju c’annu lassatu l’uossu. Ppe’ mia ‘a decisione de ni chiuda ‘ntra la rocca è sbagliata. ‘I muri d’Amantia sù forti, ma risicamu d’essere pigliati ‘ntra tagliola cumu surici. U Patreterno ‘a nua calavrisi n’ha datu vuoschi e muntagne addue nuddru esercitu po’ trase. E’ ddra c’avimu i fare ‘a guerra. Attaccare e fujere, attaccare e fujere!
(I francesi si sono ritirati, ma non credo che hanno mollato l’osso. Per me la decisione di chiuderci nella rocca è sbagliata. Le mura di Amantea sono solide, ma rischiamo di rimanere intrappolati come topi. Il Padre Eterno a noi calabresi ci ha dato boschi emontagne dove nessun esercito può entrare. E’ là che dobbiamo fare la guerra. Attaccare e scappare, attaccare e scappare!).
SCENA 38. Cartello
Amantea, 3 dicembre 1806.
SCENA 39. Esterno giorno. Fiumara
Tre suonatori di tamburo con un rullio ossessivo segnano il passo dell’esercito francese. Davanti ai soldati ci sono i generali Reynier, Verdier, il colonnello Amato e altri ufficiali. Dietro seguono battaglioni di granatieri, fucilieri, corsi, dragoni, guardie civiche e voltigeurs con aquile e guidoni. Si vede anche un reparto di artiglieri con cannoni e obici e soldati del genio con lunghe scale, picconi, pale, corde e altro materiale per l’assedio. In coda ci sono due carrozzoni, civili che portano sugli asini masserizie, viveri e munizioni e pastori che guidano un mandria di pecore e vacche.
SCENA 40. Interno Giorno. Chiesa di sant’Antonio
Il sagrestano tira con forza le corde delle campane.
SCENA 41. Esterno giorno. Chiesa di sant’Antonio. Campanile
Le campane suonano.
SCENA 42. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta
Gli assediati, alla vista dei francesi, si affacciano dalle mura e sventolano bandiere dell’esercito borbonico, gridano frasi ingiuriose, fanno le corna e mostrano il sedere.
SCENA 43. Esterno giorno. Amantea. Porta nord
Un battaglione di fucilieri francesi si posiziona davanti alla porta nord del paese.
SCENA 44. Esterno giorno. Amantea. Porta sud
Un reparto del genio e un battaglione di corsi si accampano davanti alla porta sud del paese.
SCENA 45. Esterno giorno. Amantea. Spiaggia
SCENA 47. Esterno giorno. Mare
SCENA 48. Esterno notte. Amantea. Galleria porta sud
Gli zappatori dell’esercito napoleonico stanno scavando una galleria sotto le mura della porta sud. Lavorano con picconi e pale riparandosi dal fuoco nemico dietro cumuli di fascine e sacchi di terra. La terra scavata viene portata in grandi ceste di giunco. Un ufficiale del genio, Goguet, ha dei fogli in mano, e dà disposizioni ai suoi soldati. Si gira e guarda nella Mdp.
Ufficiale Goguet: Nous avons sous-estimé l’ennemi. Au début nous avons pensé que cette ville était une faible garnison composées de gens de toutes sortes et mal armé, mais après plusieurs assauts nous avons compris que la bataille serait longue. La forteresse a des murs très solides et il est difficile de s’en approcher à cause de l’aspérité du terrain. En autre, les insurgés ont prouvé d’être très habile dans le combat, d’avoir un mépris insouciant pour la mort et une haine implacable envers nous. Cette fois nous sommes venus pour assiéger la ville. Nous ferons en sorte que personne ne puisse apporter ni vivres ni armes à l’intérieur de la garnison, nous effectuerons de fausses attaques pour que les assiéges gaspillent leurs munitions, constamment nous ferons feu avec l’artillerie pour les énerver et les affaiblir.
(C’è stata una sottovalutazione del nemico. Inizialmente abbiamo giudicato questa città un debole presidio di gente raccogliticcia e male armata, ma dopo i ripetuti assalti ci siamo resi conto che la battaglia è lunga. La roccaforte ha solidissime mura ed è difficile avvicinarsi ad essa per le asperità del terreno. Gli insorti hanno dimostrato inoltre di essere molto abili nel combattimento, di avere un noncurante disprezzo verso la morte e un odio implacabile verso di noi.
Stavolta siamo venuti per assediare la città. Faremo in modo che nessuno possa portare viveri e armi nella roccaforte, effettueremo finti attacchi per far sprecare munizioni agli assediati, spareremo costantemente con l’artiglieria per innervosirli e fiaccarli).
L’ufficiale indica con la mano l’imbocco della galleria.
Ufficiale Goguet: Mes soldats sont en train de construire une galerie pour istaller une mine sous le bastion et créer une brèche lors de l’attaque finale.
(I miei soldati stanno costruendo una galleria per sistemare una mina sotto il bastione e creare una breccia per l’attacco finale).
SCENA 49. Esterno notte. Collina
L’artiglieria francese posiziona i cannoni e comincia a sparare.
SCENA 50. Esterno notte. Amantea. Casa
Le palle di cannone fanno crollare una casa.
SCENA 51. Esterno notte. Amantea. Chiesa di sant’Antonio
Le palle di cannone centrano la chiesa e i vetri vanno in frantumi.
SCENA 52. Esterno giorno. Amantea. Vicolo I
Le campane suonano a stormo e si sentono salve di mortaretto. Dai balconi e dalle finestre, dove sono esposti panni e lenzuola bianchi, sono affacciati donne e bambini. Nel vicolo stanno salendo i membri di una confraternita vestiti con sai bianchi, cappucci e mozzette di seta celeste con relativo cordone. Portano alla cintola una feluca di feltro bianco e calzano scarpe di panno. Il rettore della confraternita impugna un bastone di malacca col pomo d’avorio. Dietro di loro alcuni popolani portano la statua di Sant’Antonio, che ha in mano pezzi di catena. Ai lati della statua si vedono “Mele” e la sua banda, la nobildonna Laura, Padre Montoja e frate Michele che tiene una pistola e un crocefisso appesi al cordone. Un gruppo di musicanti diretti da un giovane, detto “Sona sona”, suonano tamburelli, pifferi e grancassa. Intorno ci sono decine di bambini guidati da “Pisci rè”. Nel corteo c’è grande euforia ed eccitazione. I briganti, alzando minacciosamente i fucili, gridano: “A morte i francisi e i giacubbini! Viva sant’Antonio! Evviva u Re!”.
SCENA 53. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio
Il corteo si ferma davanti alla chiesa di sant’Antonio, la nobildonna Laura sale sui gradini e tiene un discorso.
Nobildonna Laura: Popolo di Amantea, i francesi a migliaia hanno accerchiato il paese. Uscite dalle case e unitevi a noi per difenderla. I francesi e i loro servi giacobini vi hanno detto che vogliono portare libertà e uguaglianza, ma vi hanno raggirato con false promesse, hanno il miele in bocca e il fiele nel cuore. Il loro vero scopo è cacciare il nostro amato sovrano e pigliarsi la nostra patria.
Tutti quelli che si uniranno all’esercito di Cristo, della Madonna e dei santi avranno denaro e cibo in abbondanza e domani saranno ricompensati dalla nostra buona sovrana Carolina e dal nostro amato Re Ferdinando.
Frate Michele, prende un pezzo di catena in mano al santo e la mostra alle persone affacciate alle finestre e ai balconi.
Frate Michele: Sette anni fa Sant’Antonio ha spezzato le catene con cui ci volevano legare i repubblicani. Riuniamoci come in passato nell’armata cristiana. Ricordatevi che un giorno dovremo morire e allora facciamolo per una causa pura e santa: la causa di Dio, del re e della patria. Ammazziamo i cani francesi e giacobini e buttiamo i corpi putrefatti in pasto ai pesci.
La gente applaude entusiasta e i musicanti iniziano a cantare l’inno sanfedista.
SCENA 54. Interno giorno. Bottega speziale
Lontano si sentono i musicanti che suonano e cantano. Lo speziale sta lavorando nella bottega dove si vedono scaffali con scatole, mortai e vasi di maiolica decorati. Pesa con la bilancia una polvere che prende da un’antica ceramica e la mette in un bicchiere d’acqua, mescola con cura e versa il liquido in una piccola bottiglia di vetro. Vi aggiunge dell’erba tritata che prende da un barattolo e agita guardando nella Mdp.
Speziale: Sono molto addolorato per questa guerra. La gente soffre ma nessuna mia miscela può curare le sue ferite. Amantea mille anni fa è stata presa dagli arabi che hanno trasformato le chiese in moschee e hanno sostituito le croci con le mezzelune. Il suo stesso nome deriva da Almantiah!
Noi vogliamo bene ad Amantea e non vogliamo che cada nuovamente in mano nemica. I nostri padri l’hanno sempre difesa con i denti e i sovrani in passato hanno stabilito che nessuno potesse venderla o darla in feudo e che se ciò accadeva gli amanteoti potevano difenderla con le armi senza incorrere nella pena di ribellione.
Amantea è la cosa più bella che abbiamo: “Stilla di l’Amantia quantu si bella! Tu si’ crisciuta a parti di marina. Lu mari ti mantene frisca e bella, cumu na rosa russa a lu giardinu”.
SCENA 55. Esterno giorno. Amantea. Vicolo III
Il corteo sale lungo il vicolo. ‘Ntonetta guarda preoccupata mentre Gruoncu applaude contento.
Suonatori: A lu suono da grancascia,
viva lu popolu vascio,
A lu suono di tammurielli
su’ risorti li puverielli.
A lu suono de campane
viva viva li populane.
A lu suono di viulini,
morte alli giacubbini.
(Al suono della grancassa, viva il popolo basso, Al suono dei tamburelli, sono risorti i poverelli. Al suono delle campane, viva viva i popolani. Al suono dei violini, morte ai giacobini).
SCENA 56. Esterno giorno. Amantea. Piazza piccola
Alcune popolane, al passaggio del corteo, applaudono e una di esse, “Malerva”, guarda sorridendo nella Mdp.
Malerva: E’ certu ca simu ppe’ re Firdinandu! E ppe’ chini averramu d’esse? Io sugnu quasi ‘na vecchia e n’haiu vistu passare acqua ‘ntra lu jume. Quannu è cangiato ‘u guvernu, ppe’ nua povera gente è cangiato sulu ‘u nume du patrune. Anzi, ogni bbota ch’è cangiata ncuna cosa, pe’ nua povera gente sù stati guai. Megliu ca tuttu rimane aru postu sua!
(E’ certo che siamo per re Ferdinando! E per chi dovremmo essere? Io sono quasi una vecchia e ne ho visto passare acqua nel fiume. Quando è cambiato il governo, per noi povera gente è cambiato solo il nome del padrone. Anzi, ogni volta che è cambiato qualcosa, per noi povera gente sono stati guai. Meglio che tutto rimane al suo posto!).
La donna riprende a battere le mani e i suonatori continua a cantare.
Suonatori: Sona sona
sona Carmagnola
sona li cunsigli
viva ‘u re ccu’ ra Famiglia.
Aru tridici de giugnu
sant’Antoniu gloriusu
I signuri sti birbanti
Ci hannu fattu ‘u mazzu tantu
Su’ venuti li Francisi,
autre tasse n’annu misu
Libertè… Egalitè…
io arruobbu a te
tu arruobbi a me.
(Suona suona Carmagnola, suona i cunsigli, viva il re con la famiglia. Il tredici di giugno sant’Antonio glorioso, i signori questi birbanti, gli fecero il mazzo tante?Sono venuti i Francesi, altre tasse ci hanno messe. Libertà … eguaglianza … io rubo a te tu rubi a me).
SCENA 57. Esterno giorno. Amantea. Piazza grande
Il corteo arriva in piazza e i musicanti suonano e cantano l’inno sanfedista.
Suonatori: Sona sona
sona Carmagnola
sona li cunsiglia
viva u re ccu la Famiglia.
Li francisi su’ arrivati
ci hanno bbuonu carusati.
E vualà e vualà
cavuci ‘n culo alla libertà.
(Suona suona, suona Carmagnola suona i consigli viva il re con la Famiglia. I francesi sono arrivati e ci hanno pelati per bene. E vualà e vualà, calci in culo alla libertà).
Rais, il pazzo del paese, vestito con degli scialli colorati e con degli amuleti attaccati al collo e delle campane legate ai fianchi, si mette a ballare al centro della piazza roteando un lungo coltello. Gli si avvicina Rachela una bella ragazza che si mette a ballare con lui. La gente tutt’intorno li applaude e ride. Il medico Salomone e Achille, un giovane dai lunghi capelli biondi, un po’ in disparte dalla folla, si guardano preoccupati.
SCENA 58. Esterno giorno. Amantea. Bastione porta sud
Il corteo arriva sino al bastione della porta sud e i portantini sistemano la statua del santo rivolgendola verso il mare a difesa del paese. “Mele” prende un fucile e lo mette tra le mani del taumaturgo in modo che sia ben visibile ai soldati francesi.
SCENA 59. Esterno notte. Amantea. Vicolo V
“Aluzza ninna”, un vecchio pescatore di Amantea, sta riparando una rete davanti alla sua abitazione. Sulla porta sono appese due lunghe paia di corna. Ogni tanto si sentono colpi di cannone, sibili di palle e fragori.
Aluzza ninna: Cuonzu ‘i rizze sperannu ca prima o pue puozzu jire torna a
piscare.
(Riparo le reti sperando che prima o poi potrò andare nuovamente a pescare).
Il vecchio indica la rete.
Aluzza ninna: Chissa è na “minaìta”e ci pigliamu alici,sarde e sguombri.Ccu‘sa rizza si pisca puru de juornu, ma ci vo’mastria ara manjare pecchì add’esse calata a chiummu e addi restare ‘mpisa a ‘nu puntu giustu.
Sa dannata guerra n’ha ruvinatu,ma ‘u bellu ancora addi venire. Si sta abbicinannu Natale e ‘u sapiti cumu dicimu nua all’Amantia?: “Prima ‘i Natale né friddu, né fame. Dopo Natale tremanu i criaturi ‘ppe’ ru friddu e ‘ppe’ ra fame”.
Fin’a pocu tiempu fa, ara luce du sule vidiamu lampiare le trippe de li pisci,‘mbece mò vidimu sulu ‘u luccichiu d’ele baionette.Ci ni sù tanti francisi sutta li mura, certi mumenti paranu cumu l’alici quannu vulliano dintra l’acqua d’u mare. N’hanno intrappolatu cumu i tunni ‘ntra cammera d’a morte. Quannu ‘u generale Reynier,‘u rais francise, duna l’ordine di azare ‘a rizza, mancu sant’Antoniu e tutti l’auvutri santi ni ponnu sarvare.
(Questa è una “minaita” e ci prendiamo alici, sarde e sgombri. Con questa rete si pescare anche di giorno, ma ci vuole esperienza ad usarla perché deve essere calata verticalmente e deve restare sospesa ad una certa profondità.
Questa dannata guerra ci ha rovinato ma il bello deve ancora venire. Si sta avvicinando il Natale e lo sapete come diciamo noi ad Amantea: “Prima di Natale né freddo, né fame. Dopo Natale tremano i bambini per il freddo e la fame”.
Fino a poco tempo fa ai riflessi del sole vedevamo “lampiare” le pance dei pesci, mentre ora vediamo solo il luccichio delle baionette. Ce ne sono tanti di francesi sotto le mura, certi momenti sembrano come le alici quando “vulliano” dentro l’acqua del mare. Ci hanno intrappolato come i tonni nella camera della morte. Quando il generale Reynier, il rais dei francesi, darà l’ordine di sollevare la rete, neanche sant’Antonio e tutti i santi ci possono salvare).
SCENA 60. Interno notte. Sagrestia
Sulla parete della sagrestia c’è un crocefisso dove è attaccato un pezzetto di carta su cui è scritto “viva il Re”. Frate Michele sta sfogliando un registro parrocchiale e sul tavolo ci sono un fucile e una baionetta. Il frate guarda le armi e poi la Mdp.
Frate Michele: Lo so che non è bello tenere armi in sagrestia e non è neanche bello ammazzare in nome di Cristo. Io e i miei compaesani siamo però costretti a farlo perché i francesi offendono e calpestano la nostra religione. In alcuni paesi si sono acquartierati nelle chiese, si allenano al tiro con le statue dei santi, abbeverano i cavalli nell’acquasantiera e utilizzano gli arredi sacri per fare mascherate. Nel convento di un villaggio qui vicino hanno rubato gli ostensori e la pisside e hanno sparso per terra le ostie consacrate.
I giacobini sono degli infami. Non capisco come tanti monaci e preti abbiano potuto aderire alla loro causa. Dicono cose empie contro la religione cattolica, considerano superstizioni la messa, la confessione, l’eucarestia, le astinenze, le preghiere, le processioni e i pellegrinaggi. Vogliono la cultura delle brutali passioni, della irreligione, della sfrenata licenza, della scostumatezza e del vizio.
Frate Michele: Vengo, vengo. Un attimo di pazienza!
Frate Michele: La nostra lotta è santa e Cristo la benedice. In diversi paesi della Calabria le statue delle Madonne si sono messe a piangere, ma i santi non sono remissivi come la Vergine. Ad Amantea alcuni fedeli hanno sognato San Giorgio, che, vestito di bianco, a cavallo del suo destriero e con la lancia in mano, faceva strage di soldati francesi. Diverse persone hanno visto poi sant’Antonio volare sulle mura de paese per deviare le palle dell’artiglieria napoleonica. Sant’Antonio è il patrono d’Amantea ed è diventato il santo protettore del Regno da quando ha accompagnato a Napoli le schiere cristiane del cardinale Ruffo contro i giacobini.
SCENA 61. Esterno giorno. Amantea. Bastione porta sud
Sulle mura si vede la statua di Sant’Antonio con il fucile a tracolla.
SCENA 62. Esterno giorno. Amantea. Porta sud
Adrien Guibinet, un medico militare francese, guarda la statua di sant’Antonio, si gira e parla davanti alla Mdp.
Medico Guibinet: Je m’appelle Adrien Guibinet et je suis officier médicin de la Garde. Un saint avec le fusil en bandoulière ce n’est pas une belle chose à voir. Prendre une sainte vierge et la remplacer par une autre parce qu’elle n’est plus bonne à faire des miracles, cela n’a rien à voir avec la foi.
Beaucoup de prêtres calabrais encouragent ces pratiques superstitieuses. Nous soldats nous ne sommes pas de sans-culottes, Napoléon a dit qu’un État n’existe pas sans la religion. Nous ne voulons pas abolir la foi en Dieu, mais nous voulons combattre les mensonges et le fanatisme religieux.
(Mi chiamo Adrien Guibinet e sono un ufficiale medico della Guardia. Un santo col fucile a tracolla non è una bella cosa da vedere. Prendere una Madonna e sostituirla con un’altra perché non è più buona a fare miracoli non ha niente a che fare con la fede. Molti preti calabresi incoraggiano queste pratiche superstiziose. Noi soldati non siamo come i sanculotti della rivoluzione. Napoleone ha detto che non può esserci uno stato senza religione. Non vogliamo abolire la fede in Dio, ma combattere le menzogne e il fanatismo religioso).
SCENA 63. Interno notte. Chiesa di Sant’Antonio
Le donne pregano devotamente tra i banchi della chiesa avvolte in pesanti scialli di lana. In una cappella è allestito un modesto presepe intorno a cui ci sono due zampognari e diversi bambini. Le campane suonano annunciando la Gloria. Le donne escono dai banchi e si avvicinano al presepe. Arriva padre Montoja, prende Gesù Bambino dalla tasca della tonaca, lo bacia e lo depone nella mangiatoia. Gli zampognari iniziano a suonare e tutti si abbracciano. Il prete si rivolge alle donne.
Padre Montoja: Gesù Bambino è nato ma non è felice perché i francesi e i giacobini malvagi lo hanno oltraggiato. Oggi lui vuole che noi combattiamo contro i diavoli atei e libertini che hanno invaso la nostra terra. Andiamo alle mura dove sono i vostri uomini e stiamogli vicino in questa notte santa.
SCENA 64. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta
Il cielo è nero, il mare è agitato e c’è un forte vento. Si sente l’urto delle onde sulla riva, lo stridore del risucchio e il rimbalzare dei flutti. “Garrubba” e Pennicchia, due giovani amanteoti, sono seduti vicino alle mura con i fucili in mano. Si sente il rombo cupo dei colpi di cannone. “Garrubba” guarda nella Mdp.
Garrubba: C’è pocu d’esse cuntienti. Chissu è nu Natale bruttu. Aru postu du suonu di zampugne si sentano i corpi di cannune.
(C’è poco da essere contenti. Questo è un Natale brutto. Al posto delle suono delle zampogne si sentono i colpi di cannone).
Interviene sorridendo l’amico Pennicchia guardando nella Mdp.
Pennicchia: Io? Io mi chiamu Emilianu Pennicchia, ditto “menzasarda” e fazzu u’ piscature ‘ntra ‘na sciabica a patrune. Chi vulìti ca vi dicu?! Stasira si sentano ‘u strusciu di l’onde e di cannuni. Ppe’ mia a vera musica è ‘u rumure d’u mare.
(Io? Io mi chiamo Emiliano Pennicchia, detto “menzasarda” e faccio il pescatore su una sciabica a padrone. Che volete che vi dica?! Stasera si sentono il rumore delle onde, le zampogne e i cannoni. Per me la vera musica è il rumore del mare).
Il vento fischia forte tra i merli delle mura. “Garrubba” riprende a parlare guardando nella Mdp.
Garrubba: Ssu vientu di dicembre è malidittu. Mamma dicìa sempre: ‘E’ miegliu avire ‘na fucilata aru piettu ca ‘u vientu ari spaddre’. ‘Sa guerra è fatta cchiù di pacienza ca di battaglie, si mora cchiù di malatie ca di ferite.
Stamu supra ‘ssi mura e aspettamu, e ‘u tiempu un passa mai. Se aju de crepare priegu ‘u Signure ca fuosse ‘na jurnata cavuda, ccu nu bellu sule e nu cielu serenu.
(Questo vento di dicembre è maledetto. Mia madre diceva sempre: ‘E’ meglio avere una fucilata al petto che il vento alle spalle’. Questa guerra è fatta più di pazienza che di battaglie, si muore più di malattie che di ferite. Stiamo sopra le mura e aspettiamo, e il tempo non passa mai. Se devo crepare spero che sia una giornata calda, con un bel sole e un cielo azzurro).
SCENA 65. Interno giorno. Cantina
Fuori piove a dirotto e si sentono i rintocchi di una campana. “Ogliaruolu” è in cantina e parla guardando la Mdp.
Ogliaruolu: N’è muortu n’autru. I ‘ntinni di campane all’Amantia cangiano si ‘u morto è fimmina o masculu, s’è riccu o è poveru. Ppe’ l’uomini si sonanu quattro ntinni, ‘ppe re fimmine tria, ‘ppe re mamme cinque. Si ‘u muortu è nu nobile o nu galantuomu, i campane sonano cchiù vote. De quannu è cuminciatu l’assediu i campane sonano ‘nzanu e guali ‘ppe tutti. Armeno ‘ssa guerra ‘ncuna cosa di giustu l‘a fatta!
(Ne è morto un altro. I rintocchi delle campane ad Amantea cambiano se il morto è femmina o maschio, se è ricco o è povero. Per gli uomini si suonano quattro rintocchi, per le ragazze tre, per le madri cinque. Se il morto è un nobile o un galantuomo, le campane suonano più volte. Da quando è iniziato l’assedio le campane suonano continuamente ed eguali per tutti. Almeno questa guerra qualcosa di giusto l’ha fatta!).
SCENA 66. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio
Piove e alcune donne, tra cui ‘Ntonietta, escono dalla chiesa portando con difficoltà un piccolo corpo avvolto in un lenzuolo sporco e lacero. Sono vestite di nero e hanno i capelli sciolti. Una di loro ha in mano una croce di legno.
SCENA 67. Esterno giorno. Amantea. Vicolo V
Le donne attraversano il centro abitato e i compaesani, tra cui “Aluzza ninna”, al loro passaggio si tolgono il cappello e si fanno il segno della croce.
SCENA 68. Esterno giorno. Amantea. Spianata del forte
Sulla spianata ci sono diversi cumuli di pietre con croci di legno. Alcuni corvi appollaiati sulla torre guardano intorno, mentre altri volano sinistramente in aria. Le donne arrivano e si fermano, poggiano il corpo a terra e ‘Ntonietta ci mette sopra un pezzo di pane e una fiaschetta d’acqua. Cominciano quindi a coprirlo con le pietre che raccolgono intorno. Soffia un forte vento che fa svolazzare le gonne e gli scialli. “Ziarella”, una donna anziana, osserva la scena poco lontana, poi si gira guardando nella Mdp.
Ziarella: E’ nu guagliune. Si chiamava Santinu. Avìa deci anni e s’astate ha pigliatu a malaria quannu ja a pascere ‘a mandra d’u barone ‘ntri pantani vicinu aru mare. Avìa sempre friddu ed era diventatu giallu cumu na jnestra .
(E’ un ragazzo. Si chiamava Santino. Aveva dieci anni e questa estate ha preso la malaria quando andava a pascolare la mandria del barone nei pantani vicino al mare. Aveva sempre freddo ed era diventato giallo come una ginestra).
“Ziarella” guarda le donne che continuano a coprire con le pietre il corpo del giovane, quindi si rivolge nuovamente alla Mdp.
Ziarella: Guardatile, nun tenanu mancu ‘a forza di ciancere picchì sù abituate ara morte. Ccà supra ‘a spianata venimu ogne juornu e avimu de fare ‘mpressa a vuorvicare i muorti, picchì c’è troppu puzza.
(Guardatele, non hanno nemmeno la forza di piangere perché sono abituate alla morte. Qui sulla spianata veniamo ogni giorno e dobbiamo fare in fretta a seppellire i morti perché c’è troppa puzza).
“Ziarella” guarda i corvi.
Ziarella: A ttena cumpagnia ari muorti rimananu i cuorvi nivuri. St’annu su belli grassi. Si vida ca ni tenanu e mangiare!
(A tenere compagnia ai morti rimangono i corvi neri. Quest’anno sono belli grassi. Si vede che ne hanno da mangiare!).
Alcuni corvi volano da destra verso sinistra e si posano sulla torre del forte.
Ziarella: Vulanu sempre da destra a manca e vole dire ca n’aspettanu guai!
(Volano sempre da destra a sinistra e vuol dire che ci aspettano guai!).
Le donne finiscono di seppellire alla meglio la salma e si dispongono a circolo intorno al tumulo. ‘Ntonietta con un masso, conficca nel terreno una croce di legno. Il sole sta calando sul mare e le donne sembrano delle ombre.
SCENA 69. Esterno notte. Accampamento napoleonico
Il chiarore della luna illumina il campo francese. Dovunque si vedono tende, baracche e carri. I soldati sono quasi tutti intorno ai fuochi per riscaldarsi e asciugare i vestiti. Al centro dell’accampamento i cuochi del battaglione stanno arrostendo carne di vacca. I soldati mangiano e bevono vino in allegria.
Il sergente Christophe Monnet e due granatieri francesi, De Rougé e Dubois, si sono sfilati i lunghi stivali di cuoio e si asciugano i piedi davanti al fuoco.
Sergente Monnet: Nous savons que dans la forteresse tout ne va pas pour le mieux. En tant que chrétien, je comprends la douleur des assiégés et j’admire leur courage, mais nous sommes soldats et notre métier est celui de combattre et d’anéantir l’ennemi.
(Sappiamo che nella fortezza non se la passano bene. Come cristiano comprendo il dolore degli assediati e ammiro il loro coraggio, ma noi siamo soldati e il nostro mestiere è quello di combattere e annientare il nemico).
Interviene il suo amico De Rougé.
Soldato De Rougé: Enfin, sous ces murs, nous nous reposons. Cela fait une an que mon bataillon se déplace d’un entroit à l’autre des Calabres pour réprimer les révoltés. C’est une guerre sans chevaux, sans canons ni tambours. Nos ennemis n’ont ni grades ni uniformes et ils ne s’ alignent pas en carré pour combattre. Nous devons chasser les brigands, mais presque toujours ce sont eux les chasseurs et nous les proies. On va les cherchés loin et ils sont juste à côuté, nous ne réussissons pas à les apercevoir eux, ils nous voient. Comme ils connaissent les lieux, eux nous échappent toujours, mais nous ne leurs échappons jamais.
(Sotto queste mura ci stiamo finalmente riposando. Per quasi un anno il mio battaglione si è spostato da una parte all’altra delle Calabrie per reprimere i ribelli. E’ una guerra senza cavalli, cannoni e tamburi. I nostri nemici non hanno gradi e uniformi e non si schierano in quadrato per combattere. Noi dobbiamo cacciare i briganti, ma quasi sempre i cacciatori sono loro e noi le prede. Li cerchiamo lontani e sono vicini, non riusciamo mai a scorgerli ma loro ci vedono. Per la conoscenza dei luoghi ci sfuggono sempre, ma noi non sfuggiamo mai a loro).
Aggiunge Monnet guardando prima De Rougé e poi la Mdp.
Sergente Monnet: Ce ne sont pas les brigands qui nous déciment mais le typhus, la dysenterie et surtout la malaria. Cet été, dans les landes désolées et malsaines de cette maudite province, nous avons respiré les miasmes des marécages et nous sommes tombés malad. À Cosenza j’ai vu des églises , des hôpitaux et des couvents pleins de soldats frappés par des fièvres intermittentes. Un colonel médecin m’a dit que l’on en comptait plus deux mille et les cadavres étaient entassés et ensevelis dans les églises. Un jour, pour se débarrasser de nos pauvres camarades morts ils les ont brûlés dans les églises de Santa Maria degli Angeli et de l’Annunciata.
(Non sono i briganti che ci stanno decimando ma il tifo, la dissenteria e soprattutto la malaria. Questa estate nelle lande desolate e malsane di questa maledetta provincia abbiamo respirato i miasmi palustri e ci siamo ammalati. A Cosenza ho visto chiese, ospedali e conventi pieni di soldati colpiti dalle febbri intermittenti. Un colonnello medico mi ha detto che se ne contavano più di duemila e i cadaveri venivano ammucchiati insepolti nelle chiese. Un giorno per disfarsi dei nostri poveri compagni morti li hanno bruciati dentro le chiese di Santa Maria degli Angeli e dell’Annunciata).
Il soldato De Rougé scuote la testa e sorride.
Soldato De Rougé: Oui, je me souviens que dans la population s’est répandue la rumeur selon laquelle leurs ombres surgssaient des flammes sous les traits de diables et hurlaient : expiation !
(Sì, ricordo che nella popolazione si era sparsa la voce che le loro ombre sorgessero dalle fiamme sotto le sembianze di diavoli e gridassero: espiazione!).
SCENA 70. Esterno notte. Amantea. Garitta bastione
“Malanima” e i suoi amici, avvolti in pesanti mantelli neri, arrivano alla garitta del bastione e danno il cambio di guardia ai loro compagni.
SCENA 71. Esterno notte. Accampamento napoleonico
Il soldato Dubois parla con tono serio guardando nella Mdp.
Soldato Dubois: Pour dire la vérité, de notre côté aussi les choses ne vont pas pour le mieux. Vêtus désormais comme des gueux, nous n’avons plus à manger et nous ne recevons plus notre paye depuis plusieurs mois. Aujourd’hui enfin on a mangé de la viande parce qu’on a abattu quelques vaches réquisitionnées aux rebelles, mais il s’agit d’un cas exceptionnel. Nos officiers admettent que les caisses sont vide et on sait que Verdier ces derniers jours a dû avancer cent quarante quatre ducats de sa poche pour payer quelques civils. En août, Joseph Napoléon a annoncé que les Calabres sont déclarées en état de guerre et que les troupes sont à charge des pays en révolte. Mais le problème le plus grave, ce sont justement les réquisitions de force. Si cette terre n’est pas capable de donner de quoi vivre à ses habitants, comment peut-elle nourrir en plus des milliers de soldats? A mon avis les troubles dans la province sont dûs principalement aux réquisitions forcées des denrées.
(Diciamo la verità, anche per noi le cose non vanno per il meglio.Vestiamo ormai come straccioni, abbiamo poco da mangiare e non riceviamo paga da alcuni mesi. Oggi finalmente si è mangiata carne perché abbiamo macellato alcune vacche requisite ai ribelli, ma si tratta di un caso eccezionale.
I nostri ufficiali ammettono che le casse sono vuote e sappiamo che Verdier in questi giorni ha dovuto anticipare 140 ducati di tasca sua per pagare alcuni civili. Giuseppe Napoleone in agosto ha detto che le Calabrie sono dichiarate in stato di guerra e che le truppe sono a carico dei paesi in rivolta. Ma sono proprio le requisizioni forzate il problema più serio. Se questa terra non è capace di dare da vivere neanche ai suoi abitanti, come può sfamare anche migliaia e migliaia di soldati? I disordini della provincia a mio parere, sono dovuti principalmente alle requisizioni forzate delle derrate).
Poco lontano dai tre, il sergente Dupont sale su un carro e si rivolge alla truppa parlando con la sua voce possente.
Sergente Dupont: Chers amis, aujourd’hui c’est le premier jour de l’an. Dédions pour un moment notre pensée à nos familles qui sont loin et à nos compagnons qui nous ont quittés.
(Cari amici, oggi è Capodanno. Dedichiamo per un momento il nostro pensiero alle nostre famiglie lontane e ai nostri compagni che non ci sono più).
I soldati si alzano, si levano i cappelli e abbassano la testa in segno di rispetto. Ci sono anziani e giovanissimi, molti sono sbracati e scalzi e hanno cappotti e coperte sulle spalle. Il silenzio è rotto da un mormorio e un passa parola: “Il generale, c’è il generale”. Reynier, dritto e fiero sul cavallo, sta compiendo un giro di perlustrazione nell’accampamento. Il sergente Dupont alza il cappello.
Sergente Dupont: Soldats! Un salut à notre général Ebnezer Reynier !.
(Soldati! Un saluto al nostro generale Ebnezer Reynier!).
I soldati gridano e agitano i cappelli per salutare il loro comandante che risponde alzando la mano.
Soldati: Gloire au général!
(Gloria al generale!).
Il sergente Dupont inizia a cantare la Marsigliese.
Sergente Dupont: Allons enfants de la Patrie,
Le jour de gloire est arrivé!
Contre nous de la tyrannie,
L’étendard sangeant est levé, (bis)
Entendez-vous dans les campagnes
Mugir ces féroces soldats?
Ils viennent jusque dans vos bras
Egorger vos fils et vos compagnes!
(Avanti figli della patria, il dì glorioso è arrivato. Contro noi la tirannia, lo stendardo cruento si levò! (bis) Sentite voi nelle campagne, feroci soldati gridar? verranno certo fino a qui, a sgozzarvi i figli e le compagne).
Il generale Reynier si toglie il cappello e lo accosta al petto. I soldati cantano in coro il ritornello dell’inno.
Soldati : Aux armes, citoyens!
Formez vos bataillons!
Marchons! marchons!
Qu’un sang impur
Abreuve nos sillons!
(All’armi cittadini ! Formate i battaglion ! Marciam, marciam, Un sangue impur I solchi bagna già!).
Berthelot e De Rougé, piangono. I soldati ripetono il ritornello
Soldati (Vfc) : Aux armes, citoyens!
Formez vos bataillons!
Marchons! marchons!
Qu’un sang impur
Abreuve nos sillons!
(All’armi cittadini ! Formate i battaglion ! Marciam, marciam, Un sangue impur, I solchi bagna già!).
SCENA 72. Esterno notte. Amantea. Garitta bastione
“Malanima” e i suoi compagni guardano verso il campo francese e ascoltano la “Marsigliese”.
Sergente Dupont (v.f.c.): Amour sacré de la Patrie,
Conduis, soutiens nos bras vengeurs!
Liberté, Liberté chérie,
Combats avec à tes défenseurs!
(repeat).
Sous nos drapeaux, que la victoire
Accoure à tes mâles accents!
Que tes ennemis expirants
Voient ton triomphe et notre gloire!
SCENA 73. Esterno notte. Amantea. Vicolo II
“Pisci rè” e i suoi amici camminano lungo il vicolo seguendo “Rais” che ha in mano un lungo coltello e un tralcio di vite. Rosinella e Mariettina li vedono passare e sorridono.
SCENA 74. Esterno notte. Accampamento napoleonico
L’accampamento napoleonico che sta ai piedi della roccaforte è pieno di luci. I soldati continuano a cantare la Marsigliese.
Soldati (v.f.c): Aux armes, citoyens!
Formez vos bataillons!
Marchons! marchons!
Qu’un sang impur
Abreuve nos sillons!
SCENA 75. Esterno notte. Amantea. Garitta bastione
L’inno della Marsigliese viene coperto da un vociare di bambini che salgono lungo le mura. “Malanima” e i suoi amici si girano per guardare cosa sta accadendo. I bambini si avvicinano alla guardiola e “Malanima” si rivolge a “Pisci rè” sorridendo.
Malanima: Pisci rè, u sta’ mai fermu. Chi n’è chissu? Addue ‘u portati?
(Pisci rè, non stai mai fermo. Chi è quest’uomo? Dove lo portate?).
“Pisci rè” ha un’aria sorpresa.
Pisci rè: Ma cumu? Nun l’aviti mai vistu? E’ ‘Rais’, u pazzu du paisi, chiru ca tena nu rimediu ppe’ ugni male. Ha dittu ca ‘ccussì cumu rescia a tagliare curu curtieddru a trumma marina, rescia a tagliare li gamme ari francisi.
(Ma come? Non lo avete mai visto? E’ ‘Rais’, il folle del nostro paese, quello che ha un rimedio per ogni male. Ha detto che così come riesce a tagliare con il coltello la tromba marina, riuscirà a tagliare le gambe ai francesi).
Il bambino si rivolge a “Rais”.
Pisci rè: Dai ‘Raìs’, falli vida chiru ca sa fare!
(Dai ‘Rais’, facci vedere quello che sai fare!).
d’ammazzare.
(Oh! San Giorgio non dormire, perché c’è un drago da punire. Fai contenti i cherubini tagliando la testa ai giacobini! Oh! San Giorgio, datti da fare, perché c’è gente d’ammazzare. Inflinza la pancia del francese e poi ritorna presto alla chiesa!).
SCENA 76. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di Sant’Antonio
Il sergente dei voltigeurs, Gustave Charpentier, è legato a una sedia. Ha la faccia tumefatta e la fronte sporca di sangue. E’ circondato dal Mele e dai suoi uomini che gli sputano in faccia e gli tirano calci. Accanto a lui c’è frate Michele che sembra voler dargli conforto, ma il soldato ha un’aria infastidita.
Sergente Charpentier: Moine, je ne veux pas de vos soins. Nous, français, nous connaissons et nous suivons la religion de Jésus Chist mais notre Die est différent du vôtre parce que vous l’utilisez contre votre prochain, à des fins basses et iniques. Vous êtes instrument de la tyrannie et vous trahissez l’évangile. En France, des prêtres comme vous, nous les avons retirés de l’oisivité et du vice et nous les avons obligés à travailler.
(Frate, non voglio le vostre cure. Noi francesi conosciamo e seguiamo la religione di Gesù, ma il nostro Cristo è diverso dal vostro perché voi l’adoperate contro il prossimo, per i vostri bassi e iniqui fini. Voi siete strumento della tirannide e tradite il Vangelo. I preti come voi in Francia li abbiamo tolti dall’ozio e dal vizio e li abbiamo obbligati a lavorare).
Frate Michele guarda imbarazzato la gente che gli sta intorno.
Frate Michele: Ha detto che siamo una massa di ignoranti e di figli di puttana e che appena entreranno in paese i francesi ci metteranno tutti alla forca.
Mele prende dalla tasca un coltello a serramanico, lo apre, si avvicina minacciosamente al soldato francese e grida.
Capo brigante Mele: Ppe’ stu cane francise nun vala ‘a pena mancu di spennare ‘na paddra ‘e chiummu. Spostativi ca ci mignu na curteddrata ‘ntra panza.
(Per questo cane francese, non vale la pena nemmeno di sprecare una palla di piombo. Spostatevi che gli tiro una coltellata nella pancia).
L’uomo conficca violentemente il coltello nella pancia del sergente.
SCENA 77. Esterno giorno. Amantea. Vicolo III
Due bambini con in mano dei fucili di legno spuntano dal vicolo camminando con aria furtiva. Uno di essi ha in testa un cappello che ricorda quello dei soldati napoleonici, mentre l’altro quello dei giacobini. Improvvisamente da un portone spuntano tre bambini anch’essi armati di fucili di legno e con cappelli alla calabrese e alla marinara. I tre, comandati da “Pisci rè”, puntano i fucili verso i nemici che si appoggiano al muro gettando a terra le armi e alzando le mani in segno di resa. “Pisci rè” con tono perentorio si rivolge agli amici.
Pisci rè: Sparatili ari cugliuni!
(Sparategli ai testicoli!)
I bambini simulano il rumore degli spari: “Bum, bum, bum”. I due prigionieri cadono a terra e si toccano all’altezza dei genitali. “Pisci rè”, mette il piede sul petto di un ferito e parla con tono duro.
Pisci rè: Giacubbinu ricchiune, mo ti tagliamu a capu e l’appicamu a nu palu.
(Giacobino ricchione, ora ti tagliamo la testa e l’appendiamo a un palo).
Guarda quindi l’altro ferito.
Pisci rè: Francise curnutu, a tìa ’mbece ti ficcamu ‘u curtieddru ‘ntra panza, ti jettamu a mare e ti facimu mangiare di li pisci.
(Francese cornuto, a te invece ti ficchiamo il coltello nella pancia, ti buttiamo a mare ti facciamo mangiare dai pesci).
SCENA 78. Esterno giorno. Amantea. Forte
Sul forte sventola la bandiera borbonica.
SCENA 79. Interno giorno. Sala d’arme
Il tenente colonnello Mirabelli e l’aiutante Stocco sono seduti dietro un tavolo e consultano delle mappe. L’aiutante alza lo sguardo verso la Mdp.
Aiutante Stocco: Sì, alcuni prigionieri sono stati pugnalati e decapitati dai nostri, ma questa non è una guerra come le altre. La gente non combatte per sete di onori o di conquiste, ma per il diritto di avere la propria fede, di vivere come i loro padri, di pregare come ha sempre fatto, di non essere governata da persone che non parlano la sua lingua. Qui non c’è una guerra ma una insurrezione. Non sono stati i nobili e i preti a radunare il popolino, ma è stato il popolino a radunare i nobili e i preti.
Il tenente colonnello Mirabelli riavvolge le carte.
Tenente colonnello Mirabelli: Quello che dice l’aiutante è vero, ma non tutti quelli che difendono queste mura sono animati da ideali nobili. Accanto alla gente onesta, mossa dall’amore per il nostro amato sovrano, c’è un gran numero di brutta gente e di scaltri avventurieri assetati di sangue e di vendette.
Il comandante guarda il suo aiutante.
Tenente colonnello Mirabelli: Stocco, i briganti non sono certo apparsi nelle nostre contrade perché sono arrivati i francesi, ci sono sempre stati e sempre ci saranno.
L’aiutante Stocco gli risponde.
Aiutante Stocco: Comandante, anch’io nutro disprezzo per questa gente. So benissimo che il loro unico scopo è quello di far sapere alla regina Carolina che sono zelanti, in modo da avere in cambio soldi e favori durante e a guerra finita, ma noi abbiamo l’ordine di arruolare chiunque vuole combattere contro i francesi.
Stocco guarda nella Mdp.
Aiutante Stocco: Sono uomini destri nel maneggio delle armi, di provato coraggio, di tenace resistenza, spietati e audaci nei combattimenti e quindi dobbiamo chiudere un occhio sulle loro nefandezze.
SCENA 80. Esterno giorno. Amantea. Piazza piccola
Perciavalle sta uscendo di casa e cammina diritto nascondendosi il viso con la mano. Parla con tono molto seccato.
Perciavalle: Non voglio parlare! Ve l’ho già detto! Non voglio parlare!
SCENA 81. Interno giorno. Refettorio militare
Alcuni briganti e popolani stanno mangiando pane e lardo che tagliano con lunghi e affilati coltelli. Sul tavolo della mensa si vedono fiaschi di vino e piatti pieni di formaggi, salame e arance. Un giovane, guardando nella Mdp, si avvicina a “Mele” e lo indica con la mano.
Brigante: E’ iddru ’u capu brigante Mele, è iddru.
(E’ lui il capo brigante Mele, è lui).
Mele smette di mangiare e parla in maniera ferma guardando nella Mdp.
Capo brigante Mele: Si, Mele sugnu iu. E’ bberu, aju datu ‘a morte ‘a sudati francisi. ‘Aiu puru ammazzatu parecchi giuvinotti d’Amantia. Nur’i canuscia pecchì nun sugnu di si parti, ma m’annu dittu ca eranu spie giacubbine.
I francisi ni chiamano briganti, ma su nume un si dà a chini duna a vita ppe’ difennare ‘a terra addue è natu.
(Si, Mele sono io. E’ vero, ho dato la morte a dei soldati francesi. Ho anche ucciso diversi giovani d’Amantea. Non li conoscevo perché non sono di queste parti, ma mi hanno detto che erano spie giacobine. I francesi ci chiamano briganti, ma questo nome non si dà a chi dà la vita per difendere la terra dove è nato).
Interviene “Sgangatu”, un anziano brigante senza denti.
Sgangatu: A’ nostra è ‘na guerra giusta. Sta succediennu chiru ca è successu si’anni arrieti curu cardinale Ruffu. Mentra i generali di Firdinandu erano fujuti ara Sicilia, nua simu partuti da’ Calabria e ‘amu liberatu ‘u regnu d’i giacubbini. Iu c’era ‘ntra spedizione. Chi belle jurnate amu passatu!
Me ricuordu ca quannu trasiamu ‘ntra li paisi c’eranu prucessioni, botte e luminere. A gente ni facia truvare vino e robba de mangiare e caminavamu sempre ‘ntra cuncierti di zampugne, chitarre, viole e tammurini. Mi parìa d’esse a ‘na festa cchiù ca ‘a ‘na guerra.
(La nostra è una guerra giusta. Sta succedendo quello che è successo sei anni fa con quel santo del cardinale Ruffo. Mentre i generali di Ferdinando erano scappati in Sicilia, noi siamo partiti dalla Calabria e abbiamo liberato il regno dai giacobini. Io ho partecipato alla spedizione. Che belle giornate abbiamo passato! Ricordo che quando entravamo nei paesi c’erano processioni, spari e luminarie. La gente ci faceva trovare vino e roba da mangiare e camminavamo sempre tra concerti di zampogne, chitarre e viole e tamburelli. Mi sembrava di partecipare ad una festa più che ad una guerra).
“Gal gal” interviene un po’ seccato guardando nella Mdp.
Gal gal: Sgangatu cunta sempre ‘u fattu de Ruffo, ma ‘i cose sù cangiate. Ca’ nun simu nua ad attaccare i francisi, ma sù i francisi ca attaccanu a nua. Io sugno d’Amantia e nun sugnu nu massista o, cumu dìcianu i giacubbini, nu brigante, ma nua giuvani du paise nunn’avimu autra via ca fare a guerra. Si n’arrennimu i francisi n’appicanu a na furca o, si tuttu va buonu, ni mannanu a mora surdati ‘ntra paisi luntani.
Nua resistimu sinu ara fine picchì nunn’avimu autra via di sarvamientu, picchì nunn’avimu nente e perdere.
(Sgangatu racconta sempre il fatto di Ruffo, ma le cose sono cambiate. Qui non siamo noi ad attaccare i francesi, ma sono i francesi che attaccano noi. Io sono di Amantea e non sono un massista o, come dicono i giacobini, un brigante, ma noi giovani del paese non abbiamo altra scelta che fare la guerra. Se ci arrendiamo i francesi ci appenderanno ad una forca o, se tutto va bene, ci mandano a morire soldati in paesi lontani.
Noi resisteremo fino alla fine perché non abbiamo altra via d’uscita, perché non abbiamo niente da perdere).
SCENA 82. Esterno notte. Accampamento napoleonico
L’accampamento francese è posto sulla collina di fronte al forte e i soldati stanno consumando il rancio. Mangiano pane, brodo di cavoli e carne bollita. Poco lontano altri militari aspettano davanti un carrozzone con una finestra e una scaletta. Si apre la porta del carro ed esce un soldato che si aggiusta con difficoltà le brache. Uno dei suoi compagni, De Drouet, ride.
De Drouet: François, tu a été rapide comme un l’éclair!
(François, sei stato veloce come un fulmine!).
François sorride un po’ imbarazzato. Dietro di lui si affaccia una donna con i capelli biondi e due nei sulle guance. Ha una camicetta bianca scollata da cui sporgono grandi seni.
Prostituta: Excellentissimes soldats, encore deux et je ferme la boutique.Je suis fatiguée
et je dois me reposer.
(Eccellentissimi soldati, altri due e poi chiudo bottega. Sono stanca e devo riposarmi).
I soldati accennano ad una protesta, ma la donna li fa tacere con tono deciso.
Prostituta: Notez sur un morceau de papier. On se voit demain soir à la même heure.
(Segnatevi su un pezzo di carta. Ci vediamo domani sera sempre alla stessa ora).
Poco lontano il medico Guibinet è seduto insieme al colonnello della gendarmeria Amato e al tenente della gendarmeria Gaspare Cozza.
Medico Guibinet: Je dois contrôler que les soldats respectent les précautions afin de ne pas contracter de maladies vénériennes, mais c’est un travail difficil dans un lieu où on meurt facilement. Nous avons appris su qu’aujourd’hui quelques-uns de nos soldats, restés prisonniers, ont été poignardé. Les révoltés enfermés dans la forteresse sont des sauvages pires que ceux que nous avons connus en Égypte. Ils égorgent les hommes comme s’il s’agissait de porcs et de temps en temps ils les découpent en morceaux.
(Come medico dovrei controllare se i soldati rispettano le precauzioni per non contrarre malattie veneree, ma è un lavoro difficile in un luogo dove si muore con facilità.. Abbiamo saputo che oggi alcuni nostri soldati rimasti prigionieri sono stati pugnalati. I ribelli chiusi nella roccaforte sono dei selvaggi peggiori di quelli che abbiamo conosciuto in Egitto. Scannano gli uomini come se fossero maiali e a volte li fanno a pezzi e se li mangiano).
Il medico si ferma, guarda il colonnello Amato e riprende a parlare con tono riflessivo.
Medico Guibinet: Nous aussi, ces derniers, nous n’avons pas fait dans la dentelle. Sous les drapeaux de Reynier il n’y a pas seulement les vétérans de Marengo ou d’Austerlitz, mais des mercenaires aventuriers et déserteurs de toutes races : ces soldats sont indisciplinés et turbulents, toujours prêts à protester et à désobéir et, si c’est nécessaire à déserter. Il y a plusieurs mois de cela, une compagnie de suisses et de polonais encadrès dans un régiment de grenadiers, ont tiré sur leurs officiers et se sont remis aux anglais. Ces gens se sont ensôlés parce qu’ils y ont été contraints par la force ou bien par avidité. Pour ces gens la seule raison de se battre c’est le pillage. À eux il n’importe rien de la France ni de la révolution).
(Certo anche noi in questi mesi non siamo andati troppo per il sottile. Sotto le bandiere di Reynier non ci sono solo i veterani di Marengo o di Austerlitz, ma mercenari, avventurieri e disertori di ogni razza. Questi soldati sono indisciplinati e turbolenti, sempre pronti a protestare e disobbedire e, se è necessario, disertare. Mesi fa’ una compagnia di soldati svizzeri e polacchi, inquadrati in un reggimento di granatieri, ha sparato sui loro ufficiali e poi si sono consegnati agli inglesi. Queste persone si sono arruolate perché costrette con la forza o per fama. Per questa gente la sola ragione di battersi è il saccheggio. A loro non importa niente della Francia e della rivoluzione).
Il colonnello Amato annuisce.
Colonnello Amato: Guibinet dice il vero. Una guerra non vede mai buoni da una parte e cattivi dall’altra. Ci sono differenze anche tra gli stessi schieramenti. Un conto, ad esempio, sono i giacobini, un conto i napoleonici, un conto i massisti, un conto i briganti. Io sono d’Amantea e sono un colonnello della gendarmeria francese. Mi addolora combattere contro i compaesani, ma i capi che stanno a difesa della rocca sono canaglie che vivevano alla macchia per rubare e uccidere. Quella gente, come ormai ammettono gli stessi borboni, è diventata padrona di Amantea e terrorizza la popolazione. Ci hanno detto che la sera si riuniscono nelle cantine, si ubriacano con acquavite, entrano nelle case e compiono ogni genere di nefandezze.
Interviene il tenente Cozza guardando nella Mdp.
Tnente Cozza: Anch’io sono di Amantea e sono onorato di combattere sotto le insegne di Napoleone Bonaparte. I francesi combattono in tutta Europa per costruire delle società giuste e al passo con la storia. Il 2 agosto di quest’anno hanno promulgato una legge con cui hanno abolito senza alcuno indennizzo tutti i diritti feudali dei baroni. Qua i poveracci pagavano una tassa pure per raccogliere la neve! Questa e altre leggi spazzeranno via per sempre i privilegi secolari dell’aristocrazia e del clero che hanno avvilito e mortificato le nostre terre. La gente un giorno capirà. Io non mi sento un traditore ma un rivoluzionario.
SCENA 83. Esterno giorno. Mare
Una corvetta inglese, ancorata nella rada, spara colpi di cannone contro il presidio francese sulla spiaggia.
SCENA 84. Esterno giorno. Mura di cinta
Gli assediati sulle mura sventolano bandiere borboniche.
SCENA 85. Esterno giorno. Amantea. Spiaggia
Le palle di cannone sparate dalla corvetta cadono in acqua. I francesi sono al riparo nelle trincee scavate sulla spiaggia.
SCENA 86. Esterno giorno. Collina
Gli artiglieri francesi sparano in direzione della corvetta inglese, ma le palle di cannone vanno a finire in mare.
SCENA 87. Esterno giorno. Corvetta inglese
Sul ponte della nave l’ufficiale inglese Jackson osserva con un cannocchiale la spiaggia e la roccaforte.
Ufficiale Smith: We cannot approach the coast because the French artillery will tear us to pieces. Our task on the other hand is not to engage in battle, but to patrol this stretch of sea and sight any kind of French navy.
We are here to defend first and foremost the interests of our country which Napoleon wants to destroy with the continental block. It is our duty to stop this despotic man. He plants trees of freedom, but in reality he wants to conquer the world. We do not accept lessons of democracy from the French since we founded it before them. We built it with patience, they created it hastily. Napoleon’s imperial eagles however have nothing to do with freedom.
(Non possiamo avvicinarci alla costa perché l’artiglieria francese ci farebbe a pezzi. Il nostro compito del resto non è quello di ingaggiare battaglie, ma pattugliare questo tratto di mare e intercettare ogni tipo di naviglio francese.
Noi siamo qui per difendere prima di ogni cosa gli interessi della nostra patria che Napoleone vuole annientare con il blocco continentale. Noi abbiamo il dovere di fermare quest’uomo dispotico. Fa piantare gli alberi della libertà, ma in realtà vuole conquistare il mondo. Noi non accettiamo dai francesi lezioni di democrazia poiché l’abbiamo fondata prima di loro. Noi l’abbiamo costruita con pazienza, loro l’hanno voluta fare in fretta. Le aquile imperiali di Napoleone non hanno però niente a che vedere con la libertà).
SCENA 88. Esterno giorno. Mare
La corvetta inglese si allontana fino a scomparire all’orizzonte.
SCENA 89. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta
Gli assediati sono delusi e amareggiati e qualcuno inveisce contro i marinai inglesi. “Gruoncu”, si rivolge a “Malerva”.
Gruongu: Sinni vannu vigliacchi. Sinni vannu.
(Se ne vanno vigliacchi. Se ne vanno)
Malerva grida arrabbiata verso la nave.
Malerva: Ma jati a fare in culo ‘nglesi di merda!
(Ma andate a fare in culo inglesi di merda!).
SCENA 92. Interno giorno. Sala d’arme
Il tenente colonnello Mirabelli, seduto dietro un tavolo, sta parlando con “Sona sona”, un giovane del paese che ha il berretto in mano e l’aspetto dimesso. L’aiutante Stocco ascolta la discussione.
Tenente colonnello Mirabelli: Io non credo alla storia che mi hai raccontato. Quando il pastore non vuole portare la mandria al pascolo dice che ha smarrito il bastone. Per gente come voi ogni scusa è buona per non combattere, ma dovete mettervi in testa che qui ad Amantea l’unico modo per guadagnare soldi e mangiare è fare la guerra.
Sona sona: Cummannante, vi haiu dittu ‘a pura verità. Vu lu giuru supra Madonna santissima e supra sant’Antonio misericordiusu.
(Comandante, vi ho detto la pura verità. Ve lo giuro sulla Madonna Santissima e su sant’Antonio misericordioso).
L’aiutante Stocco si avvicina al giovane, lo prende in maniera decisa per un braccio e lo accompagna verso le scale.
Aiutante Stocco: Si, la Madonna e sant’Antonio. Vattene via, sei un vigliacco!
SCENA 91. Interno giorno. Forte. Scale
“Sona sona” mentre scende le scale si gira, si assicura di non essere visto da nessuno e fa le corna.
SCENA 92. Interno giorno. Sala d’arme
Il tenente colonnello Mirabelli apre un libro contabile.
Tenente colonnello Mirabelli: I soldi nelle guerre sono più importanti delle armi. Ai popolani che hanno liberato il paese dal presidio francese, il re ha distribuito una ricompensa di dodici carlini. A chi combatte nel nostro esercito diamo da mangiare e un salario che varia a seconda dei gradi. Un comandante di un battaglione volante prende 10 carlini mentre un volontario 25 grani. Il denaro ce l’abbiamo perché ce lo mandano dalla Sicilia, quello che manca sono le munizioni e le armi. Ci vorrebbero cannoni di ferro con tiri a palla per sistemarli sui bastioni e soprattutto a mitraglia per metterli a difesa delle porte. Abbiamo bisogno di verghe di piombo, rotoli di polvere, pietre focaie e cartucce di ogni calibro.
Aspettiamo da un momento all’altro uno sbarco degli inglesi. Le navi appaiono spesso nella rada, ma non si avvicinano perché hanno paura di essere affondate dai colpi dell’artiglieria francese.
Interviene l’aiutante Stocco.
Aiutante Stocco: Colonnello, io, e credo noi tutti, spesso mi faccio delle domande. ‘Ma dove sono andati a finire i seimila soldati inglesi del generale Stuart che a luglio hanno sconfitto i battaglioni del generale Reynier? Come mai l’ammiraglio Viguna, nonostante gli ordini di Re Ferdinando, non è mai sbarcato sulla spiaggia di Amantea né per fare delle sortite né per farci avere rifornimenti? I briganti e i popolani da tempo sono delusi e ormai accusano apertamente i comandanti del nostro esercito di essere dei vigliacchi o addirittura dei traditori.
Il tenente colonnello Mirabelli non sa che dire.
SCENA 93. Esterno notte. Amantea. Porta sud
Gli artiglieri francesi fanno fuoco con i loro cannoni.
SCENA 94. Esterno notte. Amantea. Forte
Le palle di cannone frantumano il forte dove sventola la bandiera borbonica.
SCENA 95. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta
Gli assediati si stanno preparando per la difesa. Sulle mura c’è un agitarsi di uomini, un guizzare di lanterne, un tramestio di voci, un calpestio di passi e un rumore d’armi.
SCENA 96. Esterno notte. Amantea. Vicolo I
Da lontano riecheggiano le voci e i rumori che vengono dalle mura. Un banditore cammina per il vicolo deserto, si ferma e suona la trombetta di ottone.
Banditore: Svegliativi! Svegliativi! I francisi! I francisi!
(Svegliatevi! Svegliatevi! I francesi! I francesi!).
Si sente lo stridere delle chiavi che girano nella toppe e il cigolio di porte che si aprono. Una donna si affaccia da una finestra.
Popolana: E addue sunnu?
(E dove sono?).
Banditore: Sutta ‘u bastione du Parapuorto!
(Sotto il bastione del Paraporto!).
Si affacciano altre donne dalle finestre e nel vicolo c’è una ridda di voci.
SCENA 97. Interno notte. Studio
Perciavalle sta spiando dalla finestra.
SCENA 98. Esterno notte. Amantea. Piazza piccola
Il banditore al centro della piazza suona con forza la trombetta.
SCENA 101. Esterno notte. Amantea. Porta sud
SCENA 101. Esterno notte. Amantea. Porta sud
Ufficiale Berthelot: Feu!.
SCENA 103. Interno notte. Amantea. Palazzo porta sud
Due popolani fanno fuoco da un balcone ma al più giovane cade il fucile dalle mani per il forte rinculo. Tre donne, tra cui Rachela, caricano i moschetti. Armano il cane a mezza monta, strappano con i denti l’estremità della cartuccia, versano un po’ di polvere nel bacinetto dell’acciarino, poggiano a terra il calcio del fucile e versano il resto della polvere, introducono la palla ancora avvolta nella carta e spingono in fondo con la bacchetta.
SCENA 104. Esterno notte. Amantea. Mura porta sud
Un gruppo di popolane, tra cui “Malerba”, portano calderoni pieni d’acqua bollente.
SCENA 105. Esterno notte. Amantea. Porta sud
La battaglia infuria e nell’aria risuonano urla e fucilate. I soldati francesi del genio poggiano le scale lungo le mura, ma le donne buttano loro addosso acqua bollente, pietre e tizzoni ardenti. Altre popolane con lunghe pertiche spingono una scala facendo precipitare i soldati che sono sui pioli. Un granatiere francese carica il suo fucile, prende la mira e spara. Si vede una fiammata e una fumata.
SCENA 106. Esterno notte. Amantea. Mura porta sud
Una fanciulla, colpita al petto, si accascia sulle mura.
Ufficiale Berthelot: Calabrais bâtards! Ces attaques ne servent à rien.
Informez en tout de suite le général !
Piove a dirotto. Alcuni zappatori dell’esercito francese hanno finito di scavare una grande fossa vicino al letto del fiume. Altri soldati portano i loro compagni morti su delle barelle. Li adagiano sul terreno uno vicino all’altro e vi stendono sopra una bandiera tricolore. Due soldati suonano i tamburi e una compagnia di voltigeurs scarica i fucili in aria. Gli zappatori ricoprono le salme con le pale mentre gli altri guardano con le lacrime agli occhi.
SCENA 109. Esterno giorno. Amantea. Vicolo II
Piove e l’acqua scorre lungo il vicolo dove c’è un cane macilento morto.
SCENA 110. Esterno giorno. Amantea. Vicolo VI
Davanti casa di “Aluzza ninna” piove.
SCENA 111. Interno giorno. Casa
Aluzza ninna: E’ cchiu di n’ura ca niputima sta sedutu supra ‘u pisciaturu, ma cchi po’ cacare si nun mangia ‘nente? Sì, stamu resistiennu, ma fin’a quannu? I capi dìcianu de stare tranquilli picchì di nu mumentu all’autru venanu l’ingrisi, ma sù cchiu buci ca nuci. Ugne tantu supra ‘u mare si vidanu arrivare varche ‘ngresi e siciliane. Nua currimu ari mura e cuminciamu a fare signu e a n’abbrazzare. Li navi sparanu ‘ncuna cannunata e sinni vannu.
(E’ più di un’ora che mio nipote sta seduto sul pitale, ma che cosa può cacare se non mangia niente? Sì, stiamo resistendo, ma fino a quando? I capi dicono di stare tranquilli perché da un momento all’altro verranno gli inglesi, ma sono più voci che noci. Ogni tanto sul mare si vedono arrivare navi inglesi e siciliane. Noi corriamo sulle mura e cominciamo a fare dei segnali e ad abbracciarci. Le navi sparano qualche colpo di cannone e se ne vanno).
Il vecchio guarda nuovamente il nipote e si gratta il capo.
Aluzza ninna: Io piensu ca lu pieju ancora ‘a di venire, ca priestu vena l’ura ca nuddru po’ fujere aru destinu sua. Sonata ch’è ra campana, povera ‘a piecura c’addi dare ‘a lana.
(Io penso che il peggio deve ancora venire, che presto verrà l’ora in cui nessuno può sfuggire al proprio destino. Suonata che è la campana, povera la pecora che deve dare la lana).
SCENA 112. Interno Notte. Sala da the
La nobildonna Laura prende il the seduta sulla poltrona della lussuosa abitazione. In un vassoio ci sono dei biscotti e vicino una bottiglia di rosolio con alcuni bicchierini. Alle sue spalle c’è un camino dove ardono grandi ceppi di legna. Fuori si sentono colpi di cannone, sibili di palle e fragori. La donna parla guardando nella Mdp mentre sorseggia il the.
Nobildonna Laura: La mia famiglia, i miei servi e i miei contadini stanno combattendo per difendere Amantea. Io stessa sono andata sulle mura del Paraporto per rotolare sassi, gettare acqua bollente, caricare i fucili e curare i feriti. Quando c’è bisogno di difendere il sovrano gli aristocratici devono stare fianco a fianco della plebe.
Il 23 marzo del ‘99 abbiamo preso l’infame albero della libertà piantato dai giacobini e lo abbiamo scaraventato dalle mura. Abbiamo promosso una felicissima controrivoluzione e abbiamo celebrato un Te Deum per ringraziare l’Altissimo Iddio dell’avvenuta liberazione del regno.
Il popolo non si è fatto sorprendere dall’inganno e dalle promesse di quei cittadini arricchiti e avidi di cariche che si fanno chiamare “patriotti”. La plebe sa riconoscere i buoni e i cattivi. Noi nobili siamo un tutt’uno con il popolo e consideriamo re Ferdinando nostro padre e la regina Carolina nostra madre.
Stiamo vivendo giornate tremende, i francesi ci hanno accerchiato con un poderoso esercito, ma con la fede e la volontà si ottiene tutto.
La donna poggia la tazza di the sul tavolo e sorride.
Nobildonna Laura: I pescatori di una delle mie barche, ricordando una contesa tra una ciurma di Amantea e un’altra di Cefalù, spesso dicono: “Varca di Cefalù tantu vantata, t’arriducisti a carriari mmerda! ‘A nostra, ca è stata mazzupiata, pisci coglie e vene ventumata”.
(Barca di Cefalù tanto vantata, ti riducesti a trasportare merda! La nostra, che è stata denigrata, raccoglie pesci e viene nominata).
SCENA 113. Esterno giorno. Mare
Sul mare si vede una corvetta inglese.
SCENA 114. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta
Gli assediati, affacciati dalle mura, guardano la nave con trepidazione. “Gal gal”, con un berretto rosso e mutandoni di lana ha legato ai fianchi una vescica di maiale. Finisce di cospargersi il corpo con grasso e stringe la mano al tenente colonnello Mirabelli che sorride perché si sporca.
Tenente colonnello Mirabelli: Gal Gal, la lettera è dentro la vescica, ma se si dovesse bagnare sai cosa dire agli inglesi.
Gal gal si congeda dal colonnello e, aiutato dai compagni, si cala con una fune dal bastione.
SCENA 115. Esterno giorno. Amantea. Spiaggia
I soldati francesi si accorgono di lui e sparano con i moschetti per colpirlo.
SCENA 116. Esterno Giorno. Spiaggia
“Gal gal” arriva ai piedi delle mura e corre a perdifiato per raggiungere il mare. I soldati francesi continuano a sparare contro di lui.
SCENA 117. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta
Gli assediati gridano per incoraggiare “Gal gal”.
SCENA 118. Esterno giorno. Spiaggia
“Gal gal” raggiunge la spiaggia, si fa il segno della croce e si tuffa in mare. I francesi raggiungono anch’essi la spiaggia e cercano di colpirlo ogni volta che riemerge con il capo dalle onde.
SCENA 119. Esterno giorno. Mare
“Gal gal” nuota con forza nel mare e raggiunge faticosamente la corvetta inglese.
SCENA 120. Esterno giorno. Corvetta inglese
“Gal gal” sale a bordo della nave inglese, trema visibilmente e i marinai gli mettono una coperta sulle spalle e gli offrono una bottiglia di rum. Stacca la vescica, la rompe con i denti e consegna la lettera che c’è dentro ad un tenente Gal gal parla con difficoltà al capitano di corvetta.
Gal gal: Ginirale, mi chiamanu Gal gal e sugnu venutu ‘a vi dire ‘ppe cuntu d’u nuostru comandante ca nun ci ‘a facimu cchiù a resistere alli francisi. Ppe’ cumbattere ci vonnu core e curaggiu, ma puru sciabule, fucili, pistole e cannuni. N’aviti d’aiutare, simu senza mangiare e su tanti juorni ch’è cuminciata a scarsìare puru l’acqua. Simu stanchi picchì nun riposamu cchiù da troppo tiempu. Cu li francisi amu fattu na tregua di dieci juorni, ma pua l’amu di rapire le porte de la rocca. I nimici su cchiù stanchi di nua, sbarcati e stringimuli ‘ntra na morsa.
(Ginirale, mi chiamano Gal gal e sono venuto a dirvi per conto del nostro comandante Mirabelli che non ce la facciamo più a reggere i francesi. Per combattere ci vogliono cuore e coraggio ma anche sciabole, fucili, pistole e cannoni. Ci dovete aiutare, siamo senza cibo e da giorni è cominciata a scarseggiare anche l’acqua. Siamo stanchi perché non riposiamo più da troppo tempo. Con i francesi abbiamo concordato una tregua di dieci giorni e poi dobbiamo aprirgli le porte della rocca. I nemici sono più stanchi di noi, sbarcate e stringiamoli in una morsa).
“Gal gal” si ferma e beve nuovamente alla bottiglia. Il comandate inglese lo guarda e chiede al sottotenente.
Capitano di corvetta: What did he say?
(Che ha detto?).
Il tenente risponde.
Tenente di corvetta: He says that in town they can no longer resist the siege because they are without food and weapons. They have negotiated a truce of ten days with the French after which they will surrender. He invites us to attempt a landing and fight.
(Dice che in paese non possono più resistere all’assedio perché sono senza cibo e armi. Hanno patteggiato una tregua di dieci giorni con i francesi dopo di che si arrenderanno. Ci invita a tentare uno sbarco e a batterci).
Il comandante della corvetta ordina.
Capitano di corvetta: Tell him that we cannot go ashore because the French artillery would tear us to pieces. Tonight we shall return to Sicily and we will inform our superiors about the situation.
(Digli che non possiamo sbarcare perché l’artiglieria francese ci farebbe a pezzi. Stasera facciamo ritorno in Sicilia e informeremo della situazione i nostri superiori).
SCENA 121. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta
Gli assediati affacciati alle mura guardano attenti verso il mare.
SCENA 122. Esterno Notte. Mare
La corvetta inglese è ancorata al largo.
SCENA 123. Interno notte. Corvetta inglese
Il capitano di corvetta inglese fuma la pipa dentro la cambusa in compagnia del suo aiutante.
Capitano di Corvetta: I understand the disappointment of the besieged but orders are orders. We are certainly not afraid of fighting the French. We have done so in the month of July not far from here and we defeated them. I remember that Reynier’s troops, unsurpassable in the advancement phase, were disoriented by our cold-blooded manner of keeping our position and they precipitated in a disastrous retreat as soon as we counter-attacked.
Our strategy has however changed. Our task is to patrol the Sicilian waters and help the Calabrians in the war against the French. We continuously disembark weapons and supplies to the rebels and with our ships we bring them to one side of the coast. The Calabrians, on the other hand, wouldn’t be capable of confronting face to face the enemy in a pitched battle. They are not soldiers but bandits and attack the French troops from the rear and then take shelter in the mountains.
They are wild and primitive people. By now I know their language and when they come onboard they tell of horrifying things with pride. The other day they told us that one of their gangs cut to pieces a French soldier, boiled him and forced his fellow-soldiers to eat him. Such matters disgust us both as men and as soldiers, but the war against France obliges us to help them and encourage them.
As for the fortress in Amantea, however, we can do nothing.
(Comprendo la delusione degli assediati ma gli ordini sono ordini. Noi non abbiamo certo paura di batterci con i francesi. L’abbiamo fatto nel mese di luglio poco lontano da qui e li abbiamo sconfitti. Ricordo che le truppe di Reynier, insuperabili nella fase dell’avanzata, sono rimaste disorientate dal nostro sangue freddo nel tenere la posizione e sono precipitate in una disastrosa ritirata appena abbiamo contrattaccato.
La nostra strategia è però cambiata. Il nostro compito è quello di pattugliare il mare della Sicilia e aiutare i calabresi nella guerra contro i francesi. Sbarchiamo continuamente armi e viveri ai ribelli e con le nostre navi li portiamo da una parte della costa. I calabresi, del resto, non sarebbero in grado di affrontare faccia a faccia il nemico in una battaglia campale. Non sono dei soldati ma dei briganti e attaccano le colonne francesi alle spalle per poi rifugiarsi sulle montagne.
E’ gente selvaggia e primitiva. Ormai conosco la loro lingua e quando salgono a bordo raccontano con orgoglio cose raccapriccianti. L’altro giorno ci hanno detto che una delle loro bande ha fatto a pezzi un soldato francese, lo hanno bollito e hanno costretto i suoi compagni a mangiarlo. Sono fatti che ci ripugnano come uomini e come soldati, ma la guerra contro la Francia ci impone di aiutarli e incoraggiarli.
Per quanto riguarda la roccaforte di Amantea, però, non possiamo fare niente).
SCENA 124. Esterno notte. Amantea. Vicolo II
Alcuni giovani con grosse corde e tascapani a tracolla scendono lungo il vicolo senza fare rumore e guardandosi intorno con fare circospetto.
SCENA 125. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta
I giovani, tra cui si riconosce “Sona sona”, arrivano alle mura e fissano le corde ad anelli di ferro. Uno alla volta si calano e raggiungono i piedi delle mura. In alto si sentono grida.
Voce fuori campo: Stannu scappannu! Stannu scappannu!
(Stanno scappando! Stanno scappando!).
I giovani si danno precipitosamente alla fuga.
SCENA 126. Interno notte. Magazzino.
Il medico “Salomone”, “Marat”, Perciavalle, Achille e Bastiano sono riuniti in un magazzino dove ci sono grandi botti di vino. Sul tavolo c’è un candelabro a sette braccia, un cappuccio, un teschio di marmo e un pugnale. Stanno discutendo sull’assedio e sta parlando “Salomone”.
Medico Salomone: Cari fratelli, da un giorno all’altro i francesi riprenderanno il
paese e noi saremo chiamati a prenderci le nostre responsabilità.
Interviene Marat che ha davanti a sé il bastone col pomo d’avorio a forma di lupo.
Marat: Sì, la prima cosa da fare è costruire una grande forca, piantarla in
piazza e appendere quei cani ribelli uno a uno.
L’uomo comincia a tossire, prende una pillola dalla scatola d’argento e l’ingoia. Il medico “Salomone” lo interrompe.
Medico Salomone: Fratello, ti invito alla calma. Non dobbiamo fare gli errori del passato, dobbiamo capire bene quello che sta accadendo. Non è con la spada che ci si deve rivolgere ai traviati, ma con la virtù e la ragione.
Certe volte mi chiedo, ad esempio, se molta della gente che resiste caparbiamente all’assedio non abbia la volontà di avere una propria patria, se non è realmente convinta di battersi per una società libera dal giogo straniero.
Prende la parola Perciavalle.
Perciavalle: Io penso che a chi si sta battendo contro Napoleone non interessa niente della patria. Soprattutto la gente povera è incapace di provare passioni nobili e di comprendere concetti come quelli di nazione. Questo popolo è coraggioso, abile e feroce, ma solo per mantenere lo status quo.
Interviene nuovamente “Salomone”.
Medico Salomone: Si, è vero, la gente povera si batte per i baroni, per il re e per i preti, ma che cosa abbiamo fatto noi per portarli dalla nostra parte? Credete sia sufficiente piantare alberi della libertà, adornarli di nastri e sormontarli di berretti frigi per cambiare il mondo? Credete sia sufficiente promulgare delle leggi rivoluzionarie per realizzare la felicità dei popoli? No, fratelli, ascoltatemi, non dobbiamo credere alla magica virtù del regime repubblicano.
Se vogliamo distruggere il mondo passato dobbiamo formare gli individui, creare degli uomini nuovi. La plebe, passando dalla schiavitù alla libertà, deve essere educata al patriottismo. Usciamo dalle città e andiamo nelle campagne a persuadere i contadini che gli ideali per cui ci battiamo riguardano la loro felicità. Parliamo loro con una lingua che sia comprensibile, come quella dei predicatori che girano nelle campagne.
Lasciamo stare le dichiarazioni di principio ed evitiamo soprattutto quegli ideali che urtano il sentimento religioso della gente e che avallano le dicerie della propaganda sanfedista sulla nostra irreligiosità. Le aquile imperiali napoleoniche, del resto, non hanno più molto a che vedere con il moralismo rivoluzionario e l’intransigenza giacobina.
C’è un momento di silenzio, poi comincia a parlare Achille, un giovane dagli occhi azzurri e lunghi capelli biondi.
Achille: Io sono d’accordo con te fratello, ma società come la nostra non sono adeguate per fare tutto ciò. Alcuni ufficiali francesi mi hanno detto che in ogni parte d’Europa si sta affermando una nuova società segreta che viene nominata Carboneria. I loro affiliati hanno il compito di diffondere il sentimento della patria e tra i loro iscritti non ci sono solo signori e galantuomini, ma anche contadini e artigiani. Questa nuova società segreta si richiama non ad un Grande Architetto dell’Universo, ma a Gesù Cristo e ai santi, non auspica un rivolgimento totale della società, ma graduale e costituzionale.
SCENA 127. Esterno giorno. Collina
Due briganti con i fucili a tracolla accompagnano un pastore che guida una mandria di vacche e pecore. Una compagnia di voltigeurs, appostata in cima alla collina, sbarra loro la strada. I briganti cercano di scappare ma vengono presi a fucilate e cadono. Uno di loro è ferito, un soldato francese gli si avvicina e lo infilza con la baionetta. I voltigeurs vanno verso il pastore terrorizzato.
Pastore: M’hannu obbrigatu a portare l’animali. M’hannu dittu ca sinnò
m’averranu ammazzatu. Io nun c’intru nente.
(Mi hanno costretto a portare gli animali. Mi hanno detto che alttrimenti mi avrebbero ammazzato. Io non c’entro niente).
Il capitano ordina ai suoi soldati.
Capitano: C’est un collaborateur des brigands. Ils étaint en train d’amener les
animaux dans forteresse. Fusillez-le !
(E’ un collaboratore dei briganti. Stavano portando gli animali nella fortezza. Fucilatelo!
Il pastore non capisce ciò che ha detto l’ufficiale, ma appena vede che i francesi caricano i fucili si inginocchia e piange congiungendo le mani.
Pastore: Nun m’ammazzati, vi priegu, nu m’ammazzati! Tiegnu cinque criaturi. Nun
bogliu moriri!
(Non ammazzatemi, vi prego, non ammazzatemi! Ho cinque figli piccoli. Non
voglio morire!)
Un militare gli punta il moschetto e spara. L’uomo cade stramazzando a terra.
SCENA 128. Interno Giorno. Cisterna
Una popolana, chiamata “Zapopa”, poiché sembra essere una befana, sta prendendo acqua dal pozzo del castello che versa in un barile e nelle “cucume”. Insieme a lei ci sono tre bambini magri e pallidi, con i vestiti laceri e i capelli rapati. La donna guarda nella Mdp.
Zapopa: Cumu stamu? Cchiù scuru da mezzanotte un po’ vena. Guardàti i piccirilli e capisciti. Tenanu facce senza culuritu e paranu tutti cunsumati. Ssa guerra è maliditta. I ciucci si lieticanu e i varrili si rumpanu. I re fannu ‘a guerra e nua ciangimu, siminanu spine e nua ni pungimu. Autri due o tri juorni e pua jamu nue mamme a rape ‘e porte ari francisi. Giacubbini o nu’ giacubbini i figli nuostri ‘un ponnu moriri di fame!
(Come stiamo? Più scuro della mezzanotte non può venire. Guardate i bambini e lo capite. Hanno facce senza colorito e sembrano tutti consumati. Questa guerra è maledetta. Gli asini litigano e i barili si rompono. I re fanno la guerra e noi la piangiamo, seminano spine e noi ci pungiamo. Altri due o tre giorni e poi andremo noi mamme ad aprire le porte ai francesi. Giacobini o non giacobini i figli nostri non possono morire di fame!).
SCENA 131. Interno giorno. Casa
Si sentono palle di cannone che sibilano e cadono rovinosamente sulle abitazioni. “Ziarella” toglie da una terracotta un piccolo pezzo di carne salata piena di vermi, la lava dentro una casseruola, l’asciuga, l’odora e ha un’espressione di disgusto. Prende da una cassa un pezzo di pane nero ammuffito avvolto in un tovagliolo, lo fa a pezzi con un’ascia, lo mette in un piatto e vi versa sopra dell’acqua con una brocca. Guarda nella Mdp.
Ziarella: E’ miegliu ‘u pane nivuru tuostu ca a fame nivura tosta. E’ quasi nu mise ca dura ssa guerra e simu distrutti. Jati girannu ‘ntra le viuzze du castrieddru e viditi gente senza pane, senz’acqua e senza medicine. ‘Ntra le case nun c’è mancu nu pune di granu o de risu e ppe’ mangiare carne va a finire ca ni mangiamu tra cristiani. Stamu moriennu pur’e de friddu e ppe’ ni quadiare e cucinare amu tagliatu l’arvuli d’i jardini e ri travi de le case.
(E’ meglio il pane duro nero che la fame dura nera. E’ quasi un mese che dura questa guerra e siamo distrutti. Girate nei vicoli della rocca e vedrete gente senza pane, senza acqua e senza medicine. Nelle case non c’è neanche un pugno di grano o di riso e per mangiare carne finirà che ci mangeremo tra cristiani. Stiamo morendo anche dal freddo e per riscaldarci e cucinare abbiamo tagliato gli alberi dei giardini e utilizzato travi delle case).
“Ziarella” prende il piatto e si avvicina al letto dove è coricato “Pisci rè”. La donna lo fa sedere, gli fa mangiare un po’ di pane e guarda nella Mdp.
Ziarella: Sù due juorni ca li gira a capu e ‘un rescia cchiù a stare all’impiedi. ‘A dittu ca ‘a sbattutu ‘a capu jocannu, ma ‘a verità è ca mangia pocu da tanti juorni! Si sa guerra ‘a chicatu pura ‘Pisci rè’ vo dire ca è na brutta guerra!
(Sono due giorni che gli gira la testa e non riesce più a stare più in piedi. Ha detto che ha battuto la testa giocando ma la verità è che mangia poco da tanti giorni! Se questa guerra ha piegato pure “Pisci rè” vuol dire che è una brutta guerra).
SCENA 130. Esterno giorno. Amantea. Forte
Sul forte sventola la bandiera borbonica.
SCENA 131. Interno giorno. Sala d’arme
Il tenente colonnello Mirabelli scrive alcune righe su un foglietto di carta che consegna ad un soldato. Questi si allontana, poi guarda nella Mdp e parla con tono sfiduciato.
Tenente colonnello Mirabelli: La situazione è grave, ormai non possiamo più resistere. La popolazione è affamata. Pane, vino e carne non se ne vedono da un pezzo. I forni, che due mesi fa’ riuscivano a dare mille razioni giornaliere, sono chiusi. Oggi abbiamo mangiato gallette e fichi secchi. Ieri pane ammuffito impastato con ceci, fave e castagne. In paese ormai i francesi non fanno entrare neanche una gatta.
I nostri uomini sono stanchi e indisciplinati. Giorni fa se una donna coraggiosa, una certa Noto, non avesse dato l’allarme, i francesi ci avrebbero sorpresi nel sonno.
Molti giovani non vogliono più combattere e ogni notte qualcuno di loro si cala con le corde dalle mura e scappa. Sono scappati anche molti briganti che facevano i gradassi.
Tutti in paese vorrebbero una resa dignitosa, ma nessuno ha il coraggio di dirlo perché c’è paura. Anche se non è piacevole ammetterlo, in paese ormai da tempo comandano i briganti, e di resa non vogliono sentirne parlare perché sanno che finirebbero su una forca. Alcuni sgherri di un capo massa, due giorni fa, nonostante noi non eravamo d’accordo, hanno ucciso un onesto compaesano a colpi di pietra davanti alla moglie e ai figli solo perché aveva detto che forse conveniva arrendersi ai francesi. Io stesso sono stato accusato di essere un traditore e ho rischiato di essere linciato perché ho concordato una tregua con i francesi e adombrato la possibilità di una onorevole capitolazione.
SCENA 132. Esterno giorno. Amantea. Galleria porta sud
I soldati del genio scavano la galleria per sistemare una mina ai piedi della porta sud. Due zappatori escono dal tunnel con ceste piene di terra e pietre. Uno di loro, tutto sporco di terra, si rivolge all’ufficiale Montemajor.
Zappatore: Nous sommes arrivés aux pieds des murs de la ville .
(Siamo arrivati ai piedi delle mura).
L’ufficiale ha un’espressione soddisfatta.
Montemajor: Bien!.
(Bene!).
L’attenzione dei soldati è rivolta di colpo in direzione della roccaforte.
SCENA 133. Esterno giorno. Amantea. Bastione porta sud
Un ragazzo, Pietromalo, viene calato dalle mura con una fune. Ha in mano una bandiera bianca e una lettera.
SCENA 134. Esterno giorno. Amantea. Galleria porta sud
Il ragazzo si slega la corda dai fianchi e si avvia verso la galleria, ma Montemajor gli va incontro e lo afferra per un braccio.
Ufficiale Montemajor: Qu’est-ce que tu veux?
(Che vuoi?).
Pietromalo, per niente impaurito, mostra la lettera.
Pietromalo: Aiu di dare ‘sa littera aru generale ppe’ cuntu de li capimassa.
(Devo dare questa lettera al generale Reynier per conto dei capimassa).
L’ufficiale prende un fazzoletto dalla tasca e benda il ragazzo.
SCENA 135. Interno giorno. Tenda militare
I generali Reynier, Verdier e Peyer stanno guardando una mappa della fortezza insieme a due ufficiali e al colonnello Amato. Nella tenda entra Montemajor e si rivolge a Reynier.
Montemajor: Monsiuer le Général, il y a un garçon qui veut vous parler.
Il l’ont trouvé près des murs de la ville avec une lettre qui vous est adressée.
(Signor Generale, c’è un ragazzo che vuole parlare con voi.
L’hanno calato dalle mura e ha una lettera da consegnarvi).
Il generale Reynier alza la testa.
Generale Reynier: Faite-le passer!
(Fatelo passare!).
Montemajor esce dalla tenda ed entra con Pietromalo. Reynier guarda con aria severa il giovane che, superata l’emozione, parla come se ripetesse qualcosa a memoria.
Pietromalo: Ginirale, mi chiamu Giuseppe Pietromalo. I capimassa m’annu dittu di vi portare ssa littera.
(Generale, mi chiamo Giuseppe Pietromalo. I capimassa mi hanno detto di portarvi questa lettera).
Il generale prende la lettera e la porge al colonnello Amato che inizia a leggerla.
Colonnello Amato: Generale, è inutile che ci inviate appelli a deporre le armi. Noi umili servitori del nostro Re Ferdinando e dell’amata regina Carolina non ci arrenderemo mai. Con voi infami francesi non abbiamo niente da dirci. Siete delle canaglie e dei libertini venuti nelle Calabrie per calpestare la patria, l’onore e la religione. Noi vi giuriamo che vi daremo la morte fino a quando non farete ritorno nel vostro schifoso paese.
Siamo a conoscenza che state per fare scoppiare una mina sotto il bastione Paraporto, ma sappiate che sopra quelle mura sistemeremo tutti i vostri soldati e i giacobini nostri prigionieri.
Fuori si sente un tramestio di voci e gli ufficiali escono dalla tenda.
SCENA 136. Esterno giorno. Accampamento napoleonico
I soldati francesi stanno guardando verso le mura.
SCENA 137. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta.
Un uomo con una fascia tricolore sul petto e un giovane sergente francese sono sulle mura del bastione con le mani legate. Mele grida a squarciagola.
Capo brigante Mele: Francisi e giacubbini di merda, chissu è chiru ca vi meritati. Pruvati a trase ‘ntra rocca e ‘bi facimu fare ‘a stessa fine.
(Francesi e giacobini di merda, questo è ciò che vi meritate. Provate ad entrare nella rocca e vi faremo fare la stessa fine).
Qualcuno grida: Figli ‘i puttana! Piezzi ‘i merda! Curnuti!
(Figli di puttana! Pezzi di merda! Cornuti!).
SCENA 138. Esterno giorno. Accampamento napoleonico
I francesi guardano la scena impotenti.
SCENA 139. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta
I due prigionieri vengono spinti e fatti precipitare dalle mura. Gli assediati applaudono e sventolano bandiere borboniche. Alcuni pisciano dalle mura e altri sputano.
SCENA 140. Esterno giorno. Accampamento napoleonico
Reynier con tono perentorio si rivolge all’ufficiale Montemajor.
Generale Reynier: Avancez!
(Procedete!).
SCENA 141. Esterno giorno. Amantea. Galleria porta sud
L’ufficiale Montemajor da’ ordini ai suoi. Gli artificieri francesi prendono le casse di polvere ed entrano nella galleria per sistemarle ai piedi del bastione. Un sergente del genio con l’uniforme sporca di fango si rivolge a Montemajor.
Sergente: C’est toute le journée que ces sauvages nous ont cracher et pisser dessus! Mais pour celui qui crache et qui pisse en l’air, son crachat et sa pisse se retournent contre lui.
(E’ tutto il giorno che questi selvaggi ci hanno sputato e pisciato. Ma a chi sputa e a chi piscia in aria, lo sputo e la piscia ritornano in faccia).
SCENA 142. Esterno giorno. Mare
Il sole scompare dietro l’orizzonte.
SCENA 143. Esterno notte. Amantea. Bastione porta sud
La mina scoppia. Si sente un fragore di mura cadenti e si solleva una nube di polvere e di fumo. Il parapetto del bastione Paraporto crolla.
SCENA 144. Esterno notte. Amantea. Porta sud
Un ufficiale francese sguaina la sciabola e incita i soldati all’attacco. Carabinieri e granatieri entrano nella breccia.
SCENA 145. Cartello
Amantea, 7 febbraio 1806.
SCENA 146. Esterno giorno. Casa colonica
Alcuni militari sono di guardia davanti ad una casa colonica.
SCENA 147. Interno giorno. Casa colonica. Magazzino
Nella stanza intorno ad un tavolo sono riuniti da una parte i generali Reynier, Verdier, Peyri e il colonnello Amato, dall’altra il tenente colonnello Mirabelli e l’aiutante Stocco. Il generale Peyri sta leggendo su un foglio le modalità della resa.
Generale Peyri: Art. 1° La Ville et le chateau d’Amanthea s’en remettent à la générosité française; Art. 2° La porte Paraporto et celle extérieure du château seront démolies sans délai; Art. 3° Le chateau sera rendu tout de suite aux troupes françaises; Art. 4° On accorde jusqu’à vingt-et-un heures d’Italie pour la reddition de la Ville afin d’avoir le temps d’établir la police la plus exacte; Art. 5° Les masses ayant fait des demandes particulières, et ayant été convenu qu’il serait une liste de ceux qui désireraient jouir de l’amnistie et se retirer dans leur famille, il sera statué sur leur sort par le général en chef, et on aura des égards pour ceux qui seront recommandés par les otages ; Art. 6° Tous les habitants déposeront les armes et jouiront d’un pardon général après avoir promise fidélité a S.M. Joseph Napoléon,
à l’exception néanmoins de ceux qui seront désignés pour avoir empêché l’exécution des conditions plus favorables proposées le 31 janvier, ainsi que de l’auteur de la lettre insolente ; Art. 7° M. Ridolfo Mirabelli avec toute sa famille ainsi que M. Stocco pouvant se retirer en Sicile, il leur sera délivré à cet effet un passeport; Art. 8° Tous les détenus au château seront mis à la disposition du général en chef. Le lieutenant colonel Ridolfo Mirabelli. Le général comm.t la Calabre Citérieure et les assiégeants Amantea Peyri. Approuvé par le général commandant en chef le corps d’armée dans les Calabres.
(1°La città ed il castello di Amantea si rimettono alla generosità francese; 2° La porta di Paraporto e quella esteriore del castello saranno immediatamente demolite ; 3° Il castello sarà subito consegnato alle truppe francesi; 4° Per la resa della città si accorda una dilazione fino alle 21 d’Italia, onde si abbia il tempo di stabilirvi il più esatto servizio di polizia ; 5° Avendo le masse formulate delle domande particolari, ed essendo stato convenuto che sarà presentato un elenco di coloro i quali avessero desiderato usufruire dell’amnistia e far ritorno nelle loro famiglie, sulla loro sorte deciderà il generale in capo, ed userà dei riguardi per coloro che verranno raccomandati dagli ostaggi ; 6° Tutti gli abitanti deporranno le armi e godranno di un indulto generale dopo aver promesso fedeltà a S.M. Giuseppe Napoleone, eccezion fatta nondimeno di coloro che saranno deferiti per avere impedito l’esecuzione delle clausole più favorevoli proposte il 31 gennaio, come pure dell’autore della lettera insolente ; 7° Il signor Ridolfo Mirabelli con tutta la sua famiglia, come pure il sig. Stocco, potranno trasferirsi in Sicilia. Verrà ad essi rilasciato a questo scopo un passaporto; 8° Tutti i detenuti del castello saranno messi a disposizione del generale in capo. Il tenente colonnello : Ridolfo Mirabelli. Il generale comandante la Calabria Citeriore e le truppe di assedio Peyri. Approvato dal generale comandante in capo i corpi d’armata nelle Calabrie).
SCENA 148. Esterno giorno. Amantea. Forte
Sulle mura del bastione viene ammainata la bandiera borbonica e issata la bandiera francese.
SCENA 149. Esterno notte. Amantea. Piazza grande
Ad una barra di ferro che spunta da una casa sono appese due teste di uomini con la barba e due cappelli a cono. Una compagnia di fucilieri francesi inquadrati passano per la piazza. Il calpestio dei soldati viene coperto da una musica e da un vociare che si diffonde da un palazzo signorile dove sono accese le luci.
SCENA 150. Interno notte. Salone
Nel salone pieno di quadri, candelabri e tappeti, soldati francesi in alta uniforme ballano una quadriglia con nobildonne vestite elegantemente. Sono tutti sorridenti e si divertono. Un cameriere in livrea serve con un grande vassoio pasticcini, biscotti e bicchierini di rosolio ad alcuni ufficiali e galantuomini seduti sulle sedie e sui divani. Si riconoscono i generali Verdier, Reynier e Peyri, il colonnello Amato, il capitano Cozza, il giovane Achille, Perciavalle, “Marat” e il medico “Salomone”.
SCENA 151. Esterno notte. Amantea. Palazzo signorile
Le luci del palazzo sono accese. Un cupo rullio di tamburi copre la musica e i rumori della festa.
SCENA 152. Esterno notte. Amantea. Spianata del forte
Sulla spianata c’è un forte vento che sibila sinistramente. I corvi stanno appollaiati sui torrioni. I tamburini smettono di suonare i loro strumenti. “Malanima”, frate Michele, “Garrubba”, “Pennicchia” e altri due ribelli sono disposti in fila sulla spianata con le mani legate. Altre quindici persone, anch’esse legate con delle corde, aspettano poco lontano sorvegliate dai soldati. Di fronte ai prigionieri c’è una compagnia di granatieri francesi schierati in doppia fila e un sergente che sta dando ordini.
Sergente: Pointer!
(Puntare!).
I soldati prendono la mira.
Sergente: Feu!
(Fuoco!).
I ribelli cadono e alcuni stramazzano all’indietro per il forte impatto delle palle. Due uomini rimasti feriti vengono infilzati da un granatiere con la baionetta. I corvi sembrano osservare la scena. La compagnia di soldati arretra di un passo. Altri sei detenuti vengono disposti davanti ai cadaveri e fra loro si riconosce “Gal gal”.
Sinossi
Nel 1806 in molti centri della Calabria la popolazione si solleva contro i reggimenti francesi che occupano la regione. I ribelli, per fronteggiare il nemico, sceglievano due strategie: agguati incessanti nelle campagne e resistenza ostinata dentro le mura di vecchie roccaforti.
“La rocca di Gal gal” è un film che ricostruisce l’assedio di Amantea. Nel mese di luglio una flotta inglese bombarda la rocca che si affaccia sul mare e gran parte della popolazione insorge contro la guarnigione napoleonica che è costretta ad abbandonare il paese. La bandiera francese viene ammainata e viene issata quella borbonica.
Arrivano da ogni parte della regione bande di “massisti” che i francesi chiamano briganti, i quali prendono in mano il paese e organizzano la resistenza. Un giovane giacobino viene portato su un asino e insultato dalla popolazione tra suoni e canti sanfedisti. Altri compagni vengono fatti prigionieri e massacrati.
Verso la fine di settembre, una colonna francese proveniente da Cosenza assalta la fortezza, ma viene respinta dalla dura reazione dei lealisti e costretta a ritirarsi. Gruppi di giacobini vengono fucilati davanti ai loro parenti e una nobildonna fa celebrare un Te Deum per ringraziare il Signore della vittoria.
Agli inizi di dicembre i francesi, però, al canto della “Carmagnola”, ritornano nuovamente con un possente esercito e assediano da tutti lati la roccaforte. Ad Amantea c’è una mobilitazione generale. Un corteo di uomini, donne e bambini, porta in giro la statua di Sant’Antonio al suono di tamburelli, viole e grancasse. Preti, briganti, nobili ed ex ufficiali borbonici invitano la popolazione a combattere. La statua del santo viene collocata bene in vista sulle mura con un fucile a tracolla per difendere il paese.
Inizia l’assedio. L’artiglieria napoleonica bombarda costantemente le mura e le case, compagnie di fucilieri effettuano finti attacchi per far sprecare munizioni ai lealisti, la fanteria presidia la spiaggia per scoraggiare sbarchi nemici, compagnie di voltigeurs pattugliano le colline per impedire rifornimenti di uomini, armi e viveri agli assediati.
Gli amanteoti e i briganti respingono con valore alcuni attacchi dei reparti napoleonici e delle guardie civiche, ma, col passare dei giorni, armi e munizioni cominciano a scarseggiare e gli aiuti promessi non arrivano. Le navi inglesi e siciliane, di tanto in tanto appaiono nella rada, sparano qualche colpo di cannone e poi scompaiono all’orizzonte. Un rivoltoso, “Gal gal”, si cala dalle mura e raggiunge a nuoto una corvetta inglese per avvisare che il paese è allo stremo.
Mentre nei giorni di Natale e Capodanno nel campo francese i soldati mangiano carne, bevono acquavite e cantano la Marsigliese, nella roccaforte la gente muore di fame e i cadaveri vengono sepolti alla meglio su una spianata presidiata dai corvi. Mancano cibo, acqua, medicine e molti giovani trovano pretesti per non combattere e di notte scappano calandosi dalle mura.
Fra gli insorti ci sono profonde divisioni. C’è chi sostiene di prendere la via dei monti, chi di resistere fino alla fine, chi di contrattare una resa. Il governatore di Amantea, e con lui gran parte della popolazione, è favorevole a una capitolazione onorevole e stipula una tregua di dieci giorni con l’esercito francese, ma le bande dei briganti costringono col terrore gli assediati a resistere. Alcuni galantuomini, accusati di tradimento, vengono barbaramente uccisi e lo stesso governatore rischia di essere linciato.
Il generale Reynier, in seguito ad una lettera recapitatagli da un ragazzo in cui i massisti esprimevano il loro disprezzo nei confronti dei francesi e, dopo che alcuni prigionieri francesi e giacobini venivano scaraventati dalle mura, fa brillare una potente mina posta sotto il bastione Paraporto. L’esplosione crea una grande breccia che consente all’esercito napoleonico di entrare e conquistare la roccaforte.
Agli inizi del febbraio 1807 il governatore di Amantea firma le condizioni della resa. Sul forte viene ammainata la bandiera borbonica e issata quella francese. Giacobini, gentildonne e ufficiali napoleonici celebrano la presa della rocca con una festa da ballo mentre i rivoltosi, tra cui “Gal gal”, vengono fucilati sulla spianata del forte.
“La rocca di Gal gal” è un film in cui spesso i protagonisti, guardando nella macchina da presa, raccontano i quaranta giorni dell’assedio. I giacobini accusano i borboni di avere assoldato avventurieri ed ex galeotti liberati dalle galere. I francesi accusano nobili e chierici di impedire la liberazione dei popoli approfittando dell’ignoranza e della superstizione del popolino. I borboni accusano i francesi di aver invaso la loro legittima patria per depredarla e asservirla agli interessi della Francia. I preti accusano i giacobini di voler assoggettare la chiesa per imporre i loro costumi atei e libertini. Gli inglesi accusano i francesi di volere conquistare e colonizzare in nome della democrazia e della libertà tutta l’Europa. I briganti accusano i soldati dell’ex esercito borbonico di essere pavidi e si proclamano i veri difensori del re, della patria e della fede.
Ai margini di questo scontro sociale, politico, culturale e religioso c’era una gran massa di persone che non parteggiava né per i realisti, né per i repubblicani. La popolazione subiva la guerra e non comprendeva le ragioni del conflitto, ma in gran parte era comunque restia ai mutamenti, poiché essi avevano sempre rappresentato un peggioramento delle sue condizioni di vita.
La resistenza di Amantea e l’insurrezione delle Calabrie rientravano all’interno dello scontro strategico che contrapponeva la Francia all’Inghilterra, ma anche di un conflitto che vedeva fronteggiarsi gruppi sociali che tendevano verso un processo di riforme e di modernizzazione della società e gruppi sociali che volevano, invece, il mantenimento degli antichi legami della società.
C’era gente che combatteva per instaurare la libertà e altri per opprimerla, gente che voleva rovesciare i re e altri per mantenerli sul trono. Se ad Amantea alcune famiglie erano schierate con Re Ferdinando, altre erano schierate con Re Giuseppe Bonaparte. All’interno delle stesse famiglie e dei ceti sociali vi erano elementi che parteggiavano per l’una o l’altra fazione. Era in atto una vera e propria guerra civile e, come ogni guerra civile, lo scontro assumeva un carattere divino, una guerra di religione.
Alcuni dicevano di combattere per la fede di Dio e per la patria, altri per la fede della libertà e per l’umanità.
Lo scontro era duro, caratterizzato da una violenza estrema che culminava in uccisioni efferate e rituali. Ad alcuni venivano mozzate le teste, altri sgozzati davanti ai propri figli, altri ancora scaraventati dalle mura, altri infine, lapidati o impiccati. La guerra, col passare del tempo, perdeva il suo carattere politico per diventare un mezzo per regolare conti, per estinguere rancori e, a volte, anche debiti.
Un assedio non è fatto solo di assalti e battaglie che sembrano sottrarsi alla ragione, ma anche di lunghe pause e ozi durante i quali i contendenti parlano e riflettono. Francesi, inglesi, borboni, guardie civiche, giacobini, preti, briganti, massisti, nobili e popolani durante l’assedio, guardano anche criticamente a ciò che sta accadendo e a quello che stanno facendo. I soldati francesi si rendono conto che i calabresi combattono contro di loro a causa delle requisizioni forzate e perché sono un esercito di occupazione; gli inglesi sono consapevoli di essere lì non perché abbiano a cuore la sorte dei rivoltosi, che ritengono dei barbari, ma per difendere gli interessi della loro patria minacciata dal blocco continentale; i briganti si sentono i difensori del re e della religione, ma sanno che il loro destino sarà sempre quello di stare alla macchia; i giacobini capiscono che non basta innalzare gli alberi della libertà per fare un buon governo e che per cambiare il mondo c’è bisogno di programmi politici graduali e di associazioni che coinvolgano grandi masse. La popolazione si rende conto che quando i potenti litigano a pagarne le conseguenze sono come sempre i poveri e che quando i governi cambiano, muta solo il nome dei padroni.
Durante i quaranta giorni, assediati e assediatori aspettano e l’attesa, col passare del tempo, diventa disperazione. La guerra è soprattutto paura, malattie, stanchezza, fame e sete. Come accade sempre in ogni lungo assedio, alla fine sono tutti stremati e sconfitti.
Appunti sull’assedio di Amantea.
Amantea, paese calabrese che si affaccia sul mare, aveva alla sommità un forte di antica costruzione circondato da solide mura costruite sulla roccia a strapiombo e guarnite nell’estremità da due bastioni e due porte: ad est quella detta Paraporto e a ovest quella detta Catocastro.
Nel marzo 1806 il paese fu occupato da una guarnigione polacca dell’esercito napoleonico, ma la sera del 1 luglio una flotta inglese e borbonica bombardò la roccaforte e il presidio francese, di fronte all’insurrezione della popolazione, abbandonò la posizione e ripiegò su Cosenza insieme ad alcuni giacobini. Gli inglesi sbarcarono, entrarono in paese insieme ad un gruppo di volontari guidati da “Fra Diavolo”, nominarono castellano don Ridolfo Mirabelli e ritornarono sulle loro navi.
La notizia della liberazione di Amantea si sparse nella provincia e cominciarono subito a confluire nella roccaforte alcune bande di capimassa e sbandati dell’ex esercito borbonico. Per due mesi e mezzo il paese non ebbe noie ma il 17 settembre una colonna di soldati napoleonici di circa mille uomini arrivò sotto le mura di cinta. L’esercito, comandato dal generale Verdier, era composto da un reparto di fanteria leggera, alcune squadre civiche e un reggimento di linea. Nonostante l’attacco alla rocca fosse stato violento i francesi vennero respinti e costretti a ritirarsi.
Il Verdier ritornò il 3 dicembre con due battaglioni di linea, un battaglione di fanteria leggera, un battaglione di corsi, uno squadrone di dragoni, un reparto di guardie civiche e un reparto del genio. L’esercito aveva due obici e due cannoni, lunghe scale, funi e materiale per costruire trincee. La sera del 5 i soldati francesi si impadronirono delle case ai piedi della fortezza e, al mattino seguente, attaccarono la rocca in diversi punti per obbligare gli insorti a frazionare le forze. I battaglioni, avvisati con un colpo di cannone, sferrarono l’attacco decisivo, ma la risposta degli assediati fu nuovamente dura e inaspettata. Gli insorti si scagliarono furiosamente sui napoleonici, rioccuparono le case del borgo e li costrinsero alla fuga.
La sconfitta dei francesi ebbe una forte eco nel Regno. Amantea, con la sua resistenza eroica, aveva detto al mondo che i calabresi erano capaci di morire sui bastioni piuttosto che arrendersi.
Nonostante gli insuccessi, i francesi erano intenzionati a prendere a tutti i costi la roccaforte perché strategicamente importante dal punto di vista militare e politico. Dopo l’arrivo di un reparto di fanteria, la notte dell’8 dicembre, approfittando di una fittissima nebbia, attaccarono il paese dal lato mare. I guastatori avrebbero dovuto demolire il parapetto di cinta ma, a pochi passi dalle mura, una donna di vedetta, Elisabetta Noto, diede l’allarme. Gli amanteani, svegliati dalle sue grida, accorsero verso il bastione e cominciarono a sparare costringendo i francesi ad arretrare.
Il Verdier e i suoi ufficiali, che inizialmente avevano giudicato Amantea un debole presidio di gente raccogliticcia e male armata, dopo i ripetuti assalti si resero conto che le operazioni per riconquistarla erano lunghe. La roccaforte aveva solidissime mura ed era difficile avvicinarsi ad essa per le asperità del terreno; gli insorti avevano dimostrato inoltre di essere abilissimi nel combattimento, di avere un odio implacabile nei confronti del nemico e un noncurante disprezzo verso la morte. A dirigere la difesa c’erano alcuni ex soldati borbonici che obbedivano al tenente colonnello Mirabelli, ma la forza militare stava soprattutto nelle bande di briganti accorsi da ogni parte della regione.
I francesi però avevano ormai circondato il paese e nessuno poteva ormai entrare o uscire dalle mura di cinta. Dopo i ripetuti scontri, tra gli assediati cominciavano a scarseggiare piombo e polvere da sparo nonché i proiettili dei vecchi cannoni sistemati sui bastioni. In paese scarseggiavano anche acqua, medicine e viveri e cominciavano a diffondersi epidemie per le precarie condizioni igieniche.
Gli attesi aiuti della marina siculo-inglese non arrivavano. Il 29 e il 30 dicembre quattro corvette inglesi spararono qualche colpo di cannone contro i francesi, ma la decisa reazione dell’artiglieria napoleonica le costrinsero ad allontanarsi tra la delusione degli amanteani che guardavano dai bastioni.
Intanto, ai piedi della roccaforte, continuavano ad arrivare truppe francesi, guardie civiche e volontari giacobini. Alla fine di dicembre intorno alle mura c’erano oltre 3500 uomini, con artiglieria e materiale d’assedio. Un battaglione di corsi e uno di fanteria presero posizione nella zona di Pianomarina, sulle colline del Camolo, un reparto di fanteria si stabilì sulla Cannavina e altri due battaglioni di fanteria stazionavano alle spalle del paese per impedire sortite delle bande di insorti. Gli zappatori e le guardie provinciali occuparono S. Bernardino e a queste truppe si aggiunsero successivamente, alcuni soldati di un reggimento a cavallo. L’artiglieria, che comprendeva in principio soltanto un mortaio, due obici e un pezzo da 12, fu rafforzata con altri quattro cannoni e venne sistemata tra il convento di San Bernardino e la cappella del Carmine.
Il 4 gennaio Verdier fece arrivare agli insorti un proclama in cui concedeva l’amnistia a coloro che avessero deposto le armi e giurato di non combattere più i francesi. Non avuta alcuna risposta il 5 diede ordine all’artiglieria di cannoneggiare il fianco sinistro del bastione Paraporto perché presentava minore resistenza.
Nella notte del 6 golette inglesi spararono alcuni colpi di cannone contro i soldati francesi che costruivano delle trincee e, al mattino dell’11, due navi borboniche cercarono inutilmente di avvicinarsi alla spiaggia per tentare una sortita. Il pomeriggio del 12 una squadra navale napoletana, composta da una fregata, due corvette, una galeotta e due scialuppe cannoniere, entrò nelle acque di Amantea e, giunta vicina alla spiaggia, calò alcune scialuppe. Un gruppo di assediati, approfittando dell’aspra battaglia tra le navi e l’artiglieria francese, riuscirono a raggiungere la spiaggia e si impossessarono di viveri, armi e munizioni.
La sera del 13 gennaio l’artiglieria francese, dopo un intenso bombardamento, r aprì una breccia nel Paraporto. Il generale Verdier, alla testa del reparto di guastatori, si lanciò risolutamente all’assalto, ma la durissima reazione degli assediati obbligò i francesi a retrocedere. Dal 15 al 17 gennaio, dopo un continuo martellamento dell’artiglieria, alcuni capi dei ribelli abbandonarono il paese senza che i francesi intervenissero.
Reynier inviò al governatore Mirabelli una lettera esortandolo alla resa ed ebbe uno sdegnato rifiuto. Il 19 gennaio seguì una missiva del colonnello amanteota dell’esercito francese Luigi Amato, per persuaderlo alla resa e questa volta il governatore del paese accettò chiedendogli però dieci giorni di tregua per addivenire ad un accordo. Mirabelli sperava che nel frattempo arrivassero uomini e armi dalla Sicilia. Il 27, un popolano, tale Giuseppe Francesco Secreti, soprannominato “Gal gal”, sfidando i colpi delle sentinelle francesi, si calò con una fune dal bastione, arrivò alla spiaggia e raggiunse, nuotando nelle gelide acque, una fregata inglese ormeggiata al largo. Il 29 gennaio alcune navi borboniche calarono alcune scialuppe piene di armi e viveri ma l’artiglieria francese cominciò a sparare costringendoli a recedere dal proposito.
Il 30 gennaio, scaduta la tregua, le batterie francesi riaprirono il fuoco. Il Mirabelli si recò personalmente al campo francese e concordò col generale Peyri una onorevole capitolazione ma, ritornato in paese, fu accusato di tradimento da alcuni capibanda e rischiò di essere fucilato. Su istigazione di alcuni capimassa, due prigionieri, tra cui un sacerdote, furono massacrati, i loro corpi fatti a pezzi e buttati dall’alto delle mura. Gli assediati tramite un ragazzo fecero pervenire ai francesi una lettera piena di scherno e minacciarono che avrebbero messo soldati francesi e giacobini nel luogo dove doveva scoppiare la mina.
Il 5 febbraio gli artificieri francesi, terminati i lavori di scavo della galleria, sistemarono le casse della polvere e la sera del giorno dopo accesero le micce e le fecero brillare. Lo scoppio fu terribile, si udì un fragore di mura cadenti e si sollevò una nube di polvere e di fumo. Il parapetto del bastione si rovesciò presso la porta di Paraporto. La fanteria leggera napoleonica attaccò subito entrando nella breccia, ma gli assediati cominciarono a sparare dalle finestre delle case costringendola a ripiegare. Calata la sera, approfittando dell’oscurità, i soldati napoleonici tentarono un nuovo attacco e ci fu una mischia terribile. I capibanda, che avevano voluto la resistenza fino alla fine, abbandonarono il paese e presero la via dei monti.
Il Mirabelli il 6 febbraio, dopo aver fatto issare sul castello una bandiera bianca, mandò un suo tenente per trattare la fine delle ostilità, ma il generale Reynier non accettò alcuna condizione. Facendosi calare dalle mura con una fune Mirabelli si recò personalmente al campo francese per chiedere la resa. Alle ore 10,00 del 7 gennaio, dopo quaranta giorni di assedio, le truppe napoleoniche entravano in paese. Il vessillo borbonico veniva ammainato e innalzata la bandiera francese.
Per una ricostruzione dell’assedio di Amantea cfr. Francesco Carratelli, Commemorazione del primo centenario dell’assedio di Amantea. 7 febbraio 1807, Napoli, tip. Kumlin & Carbonini, 1907; Cesare Cesari, L’insurrezione calabrese nel 1806 e l’assedio di Amantea, Estratto dalle Memorie Storiche Militari. Comando del Corpo di Stato Maggiore. Ufficio Storico, fasc. I, Roma, Officina Poligrafica Editrice, 1991; Guido De Mayo, L’insurrezione calabrese dalla battaglia di Maida all’assedio di Amantea, Estratto da “Archivio Storico della Calabria”, A.I, Mileto-Catanzaro, 1912-1913; Luigi Maria Greco, Storica narrazione intorno all’assedio di Amantea, Cosenza, Casa del Libro 1972; Id., Annali di Citeriore Calabria dal 1806 al 1811, Vol. I-II, Cosenza, Ed. Davide Migliaccio, 1872 ; Giovan Battista Micheli, I ‘massisti’ e l’armata di Massena in Calabria, Cosenza-Roma, La Guiscarda, 1966; Nicola Misasi, L’assedio di Amantea, Napoli, tip. Bideri, 1941; Antonio Rotondo, Memoria storica sulla rivoluzione antinapoleonica dei calabresi, Cosenza, Chiappetta, 1954; Gabriele Turchi, Storia di Amantea (dalle origini alla fine del secolo XIX), Cosenza, Fasano, 1981; Pietro Calà Ulloa, Della sollevazione delle Calabrie contro a’ stranieri, Roma, tip. B. Morini, 1871; Vittorio Visalli, I calabresi nel risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862, Vol. I, Torino, tip. Tarizzo e figlio, s.d.
Sui giacobini e i sanfedisti cfr. Umberto Caldora Umberto, Fra Patrioti e briganti, Bari, Adriatica Editrice, 1974; Gaetano Cingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799, Messina-Firenze, D’Anna, 1957. Sul decennio francese cfr. Umberto Caldora, Calabria napoleonica, Su Amantea alla fine del XVVI secolo cfr. Susanna Miceli, Amantea sul finire del Settecento. Uomini, natura, società, Cosenza, Due Emme, 1996.
Ho scritto il soggetto e la sceneggiatura del film “La rocca di Gal gal” sulla base di una documentazione storica. Esigenze filmiche e artistiche mi hanno però costretto a non essere rigoroso nella ricostruzione degli avvenimenti. Alcuni nomi dei protagonisti sono veri, altri inventati; certi episodi che si vedono scorrere di giorno sono accaduti di notte; alcuni personaggi presenti in alcuni fatti in realtà non c’erano; la lingua parlata non è né quella del tempo, né quella di Amantea. Piccoli dettagli che non cambiano e non snaturano la storia. Del resto non tutti i testi e i documenti concordano su come siano andate veramente le cose.
Ringrazio gli impiegati della Biblioteca Civica, della Biblioteca Nazionale e dell'Archivio di Stato di Cosenza. Un ringraziamento anche a tutti coloro che mi hanno aiutato nella ricerca e in particolare a Cornelia Golletti, Giacinto Cortese, Giuseppe Marchese e Jusi Maggiorino.
La traduzione dei testi in francese è stata curata da Tiziana Donati e quella in inglese da Serafina Lina Filice.
Quarta di copertina.
Sono passati duecento anni dall’assedio di Amantea. “La rocca di Gal gal” è un film celebrativo e di approfondimento storico. I protagonisti, guardando nella macchina da presa, raccontano come vivevano l’assedio, ma discutono anche di questioni politiche, sociali e religiose.
Ci sono alcuni che sostengono di combattere per instaurare la libertà e altri per opprimerla, chi per rovesciare i re e chi invece per mantenerli sul trono. Alcuni dicono di battersi in nome della fede in Dio e della corona, altri in nome della fede per la libertà e per l’umanità. Come in ogni guerra civile lo scontro sembra assumere un carattere divino, una guerra di religione e la violenza si esprime spesso in uccisioni efferate e rituali.
Gli assedi non sono fatti solo di attacchi e battaglie che sembrano sottrarsi alla ragione, ma anche di lunghi ozi durante i quali la gente parla e pensa. In oltre quaranta giorni di accerchiamento francesi, guardie civiche, borboni, giacobini, inglesi, massisti, preti, briganti, nobili e popolani hanno molto tempo per riflettere e molti guardano criticamente a quello che sta accadendo e a quello che stanno facendo.
Durante i quaranta giorni assediati e assediatori aspettano e l’attesa col passare del tempo diventa disperazione. La guerra è soprattutto paura, malattie, stanchezza, fame e sete. Come accade sempre in ogni lungo assedio alla fine sono tutti stremati e sconfitti.
Giovanni Sole (Cosenza, 1953), insegna Antropologia Religiosa e Antropologia Culturale e Visiva presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria.
Da tempo si occupa del rapporto tra cinema, storia e antropologia, scrivendo saggi (Trentacinque millimetri di terra. La Calabria nel cinema etnografico, 1992; La Calabria nel cinema degli anni cinquanta, 1999) e sceneggiature (La partita di pallone, 1995; I patrioti, 1995; Fate e transistors, 1999; Il cavaliere crociato e il vecchio pastore. Dialogo tra lo spirito e la materia, 2001; L’ultimo fotogramma, 2002; La terra dei palloni. Storia di un immigrato - Peperoncini nella nebbia. Storia di un emigrato, 2004). Come regista ha girato inoltre cortometraggi (Spaventapasseri, 1992, La giornata di Youssef, 1998; La lezione, 2000; Il gioco della settimana, 2001; Il canto dei patrioti, 2001) e lungometraggi (Zughi zughi,1991; Francisco de Paula, 1993; Fate e transistors, 2004).