La roche de Gal gal                

L’assedio di Amantea

10 ottobre

 

 

SCENA 1. CARTELLO

Calabria, Amantea, 1 luglio 1806.

 

   SCENA 2. ESTERNO NOTTE. MARE

 

Sul mare  nero sono ancorate  alcune navi con le vele bianche.

Si vedono un vascello, due fregate, due bricks e tre lancioni della marina britannica.

Il vascello e  le fregate  aprono il fuoco.

 

     SCENA 3. Esterno notte. Amantea

 

Le palle di cannone si schiantano contro il paese situato su una roccia tagliata a picco sul mare. Intorno vi sono solide mura e due bastioni che sormontano due  porte, una a nord e una a sud. 

Sull’antico forte sventola una bandiera francese.

 

 

   SCENA 4. Esterno giorno. Mare

 

Le navi inglesi continuano a cannoneggiare.

 

 

 

SCENA 5. Esterno giorno. Amantea. Spiaggia

 

Sulla spiaggia ai piedi del paese centinaia di uomini, donne e bambini sventolano bandiere borboniche e agitano le braccia. Alcuni amanteoti, guidati da “Gal gal”, un giovane marinaio con gli orecchini e il pantalone a strisce, trascinano in acqua un gozzo e si dirigono remando verso la fregata inglese.

 

 

SCENA 6. Esterno giorno. Mare

 

Il gozzo si avvicina alla nave e  “Gal gal” parla con i marinai  affacciati dal ponte della fregata.

 

SCENA 7. Esterno giorno. Fregata inglese

 

Sulla nave gli ufficiali parlano tra loro. L’ammiraglio Sidney Smith  si rivolge ai suoi ufficiali e ordina.

 

Ammiraglio SmithStop the cannonades.  The population is  rebellious   

                               and the French garrison has surrendered.

                                  (Fate sospendere i cannoneggiamenti. La popolazione è insorta 

                                                   e  la  guarnigione francese si è arresa).

 

 

SCENA 8. Esterno giorno.  Amantea. Forte

La bandiera francese viene ammainata e viene issata la bandiera borbonica.

 

 

 

SCENA 9. Esterno notte. Fiumara

 

Una piccola colonna di soldati napoleonici risale frettolosamente la fiumara per inoltrarsi nelle montagne. Insieme a loro ci sono  uomini e donne  carichi di bagagli. Gruppi di popolani armati inseguono la colonna lanciando pietre e gridando: Jativinni  francisi  di merda. Sparano anche colpi di moschetto e due soldati cadono colpiti a morte. La colonna francese scompare nel bosco, gli inseguitori si fermano  e  alcune popolane  spogliano  i caduti che  rimangono  completamente  nudi.

 

 

SCENA 10. Esterno giorno. Amantea. Porta sud

 

Venti uomini dall’aspetto poco rassicurante sono assembrati davanti alla porta sud del paese.  Sono briganti e quasi tutti indossano cappelli a cono adorni di  nastri rossi che cadono giù per le spalle, giacche e pantaloni dai colori vivissimi, giubbetti con i bottoni d’argento, sciarpe scarlatte di seta ravvolte alla vita, uose di cuoio legate alle gambe, coltelli catalani alle cintole e fiaschette ad armacollo. “Mele”, il loro capo, indossa un giaccone e un  cappello di ufficiale della marina inglese su cui sono attaccate medaglie e un’immagine della Madonna e un crocefisso di legno. Ha una lettera in mano e la porge a un soldato borbonico.

 

Capo brigante Mele:   Sugnu ‘u capu brigante Giuseppe Mele.‘A  regina Carulina   

                                  m’a  dittu  de  venire  all’Amantia   ppe’  cumbattere  li   francisi.

                                              (Sono il capo brigante Giuseppe Mele. La regina Carolina mi ha detto di   

                                                  venire ad  Amantea  per combattere  i  francesi).

Il capo brigante indica con la mano i suoi uomini che portano orecchini, anelli e collane d’oro.

 

             

 

              Capo brigante  Mele:  Eranu tutti briganti, ma mò simu diventati  surdati e fannu a  

                                                  guerra  ppe’ re  Firdinandu.

                                          (Erano tutti  briganti, ma ora sono diventati soldati e  fanno

                                                          la guerra  per  Re Ferdinando).

 

I briganti ridono e alcuni sono senza denti.

 

 

SCENA 11. Esterno giorno. Amantea. Vicolo I

 

Briganti con i fucili a tracolla accompagnano un giovane  in groppa a un asino.

Il prigioniero  ha in testa un berretto frigio e sul petto una fascia con  il tricolore francese.  Due popolane al suo passaggio gli  sputano addosso  e i bambini, incitati da “Pisci rè”, un ragazzino dagli occhi vivaci e con le orecchie a sventola, gli scagliano  pietre. Il giovane sull’asino è sanguinante e terrorizzato. Alcuni musicanti, accompagnandosi con  tamburi, tamburelli e grancasse, iniziano a cantare l’inno sanfedista.

 

      Musicanti:    Viva  viva Firdinandu, nuostru patre  nuostru re.

                          Viva  ancora Carulina, nostra matre ‘a regina.

                                                  Se  ribbellarrunu  li calavrisi, ppe’ distruggere li francisi.

                                                 Li francisi chi sunnu  cani, tuttu  su  tiempu currunu a mare.

                                                               E ppe’ mare ci stannu l’inglesi, ca  ‘un  ni  lassanu navigare.

                         Tutti i francisi, avimu d’ammazzare.

                             (Viva viva Ferdinando, nostro padre nostro re. Viva ancora Carolina, nostra madre la    

                                         regina. Si ribellarono i calabresi, per distruggere i francesi. I francesi che sono   

                                         cani, tutto il tempo corrono a mare. Per il mare ci sono gli inglesi, che non li  

                                         lasciano navigare. Tutti i francesi dobbiamo ammazzare).

 

 

SCENA 12. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio

 

Il corteo  attraversa la piazza dove c’è la chiesa di Sant’Antonio. I musicanti continuano a suonare e cantare.

 

                               Musicanti:     Viva viva Firdinandu, ch’avia  piersu  su  bieddru  regnu.

                                                           L’avìa  persu  cu  l’ inganno, viva  viva Firdinandu.

                                                         St’arburu senza rariche, sta cuòppula senza capu,

                                                        ‘ ntra lu   Regnu  a   ripubblica ‘ un  resta.

                           E’ finita l’uguaglianza, è  finita a  libertà.

                          Viva Diu  e sua Maistà, li Giacubbini fora de ccà.

 

(Viva viva Ferdinando, che aveva perso questo regno bello. L’aveva perso con l’inganno, viva viva Ferdinando. Quest’albero senza radici, questa coppola senza testa, nel regno la Repubblica non resta. E’ finita l’uguaglianza, è finita la libertà. Viva Dio e sua maestà, i giacobini fuori di qui).

 

Malerva, una donna corpulenta,  interroga “Pisci rè”.

          Malerva: Chin’è?

                                        (Chi è?).

 

Il bambino risponde prontamente.

 

           Pisci rèE’ unu di  figli  du  miedicu  Perciavalle “u sfregiatu”, chiru ca   

                         studiava a Napuli ‘ppe diventari avucatu. E’ nu giacubbinu, ja diciennu 

                         ca  volìa  a  libertà  e  l’uguaglianza.

(E’ uno dei figli  del medico Perciavalle “lo sfregiato”, quello che studiava  a Napoli per diventare avvocato. E’ un giacobino. Andava dicendo che voleva  la libertà e l’uguaglianza).

 

 

          MalervaMa  allura  è nu  farabuttu?

                                  (Ma allora è un  farabutto?)

 

La donna riprende.

 

           Malerva: E  addua  ‘u  portati?

                                (E dove lo portate?).

 

Interviene  “Mele”  ridendo.

 

           Capo brigante MeleU  stamu  portannu  n’galera, prima l’interrogamu e pua  

                                            l’ammazzamu!

                                                 (Lo stiamo portando in prigione, prima lo interroghiamo  e poi  lo

                                                                     ammazziamo!).

 

 

SCENA 13. Interno notte. Sartoria

 

Nicola il sarto ripara la giubba di  un ufficiale borbonico. Nella bottega si vedono  appesi pantaloni,  mantelli e camicie. Seduto di fronte a lui c’è  il medico “Salomone”, un uomo magrissimo con gli occhiali rotondi dalla montatura d’argento. Il sarto smette di cucire e guarda  nella Mdp.

 

             Sarto: Chi volìti  ca  vi dicu, nun  mi  sugnu  mai  ‘nteressatu  di  guverni.  Viju  però  ca  ‘ntru  paise  frati   si scannano tra  loru all’umbra  di  bannnere  straniere. Viju  puru  che ‘a  n’attaccare sù  forestieri  e  a  ni  difenda   sù  forestieri.

 

               (Che volete che vi dica, non  mi  sono mai  interessato di governi.  Vedo però che in paese fratelli  si scannano tra  loro all’ombra di bandiere straniere. Vedo pure che ad attaccarci  sono forestieri  e a  difenderci  sono forestieri).

 

 

Interviene  “Salomone”.

 

 SalomoneHa ragione mastro Nicola.  Qui non c’è solo una guerra   tra  inglesi e francesi, ma anche tra  lealisti e giacobini. C’è una guerra civile, una guerra fratricida. Tutta la Calabria è divisa a metà. Ci sono famiglie che combattono contro famiglie, fratelli che combattono contro fratelli,  paesi che combattono contro paesi. Ormai non sono più  la  patria e la  religione  a  muovere gli animi,  ma  il risentimento, l’odio  e la  vendetta.

 

Il sarto guarda nella Mdp.

 

                 Sarto: Di chiru  chi  sacciu  iu, cierti  paisani sù stati ammazzati  cchiù  ppe’  viecchi  rancuri  e  ‘ppe   diebiti,  ca   ppe’ amure di la patria!  

 

                 (Da  quello che so io  certi compaesani sono stati ammazzati  più  per vecchi rancori e per debiti, che per amore della patria!).

 

 

SCENA 14. Esterno notte. Amantea. Piazza piccola

 

Perciavalle, un uomo anziano dai capelli corti e dall’aspetto signorile, sta entrando frettolosamente in casa. Si gira, guarda nella Mdp e si vede una  cicatrice sull’occhio destro.

 

      PerciavalleNon voglio parlare!  Non  voglio parlare!

 

 

 

 

SCENA 15. Interno notte. Studio

 

“Marat”, un giacobino di Amantea, parla  seduto di spalle dietro una scrivania su cui si notano una piccola scatola d’argento e  un  bastone col pomo d’avorio scolpito con una testa di lupo. Davanti a lui c’è un  mobile  pieno di libri.

 

Marat: Mi chiamano ‘Marat’ perché sono un “patriotta” e  venero la repubblica, ma la gente rozza non crede che sia una cosa buona. Il popolino non ha una mentalità rivoluzionaria e non pensa ad  un mondo libero, perché è contrario ad ogni cambiamento. E’ ignorante, cieco e reazionario. Dice di combattere  per il suo amato sovrano,  ma almeno fosse un re coraggioso e onesto! Tutti sanno che Ferdinando è un cornuto e un  vigliacco. Appena ha  visto il pericolo   è scappato in Sicilia  e il suo degno esercito si è sbandato senza sparare un colpo di fronte a un nemico dieci volte inferiore.

 

L’uomo comincia a tossire e, senza mostrare il volto, prende una pillola dalla scatola d’argento e la ingoia. Prosegue parlando sempre di spalle alla Mdp.

 

Marat:  Alcuni amici pensano che i francesi hanno fatto poco per attirarsi le simpatie della popolazione. Saccheggiano, incendiano, stuprano e massacrano per imporre  le  loro idee politiche e religiose,  ma io  dico  che  hanno fatto troppo poco. Qui  in paese da giorni siamo in mano a  bande di galeotti  liberati dalle galere e lazzaroni della peggiore specie venuti da ogni parte della regione.

                    Questi briganti, ben  pagati da quella puttana della regina Carolina,  sfogano la loro brutalità. A mio fratello, capo giacobino,  hanno tagliato la  testa, l’hanno infilzata su una  picca e l’hanno portata per le vie del paese. I suoi amici  li  hanno portati a mare  e li hanno affogati. Io sono riuscito a salvarmi ma mi cercano e devo stare nascosto fino a  quando non ritorneranno i francesi.

 

 

SCENA 16. Interno notte. Cantina

 

Nella cantina buia un gruppo di persone guardano due giovani che giocano a morra. “Ogliaruolu”, un uomo con  la fronte solcata da profonde rughe,  sta seduto da solo guardando fisso il bicchiere di vino. L’oste batte l’acciarino, accende la miccia  e appicca  il fuoco ad una lucerna la cui fiammella rischiara un po’ la stanza. Prende dell’acqua da una brocca e  la versa  in un fiasco di vino mentre guarda nella Mdp.

 

                 OsteSi,  ‘u  sanno  tutti  ca  mintu  acqua ‘ntra  lu  vinu,  ma chissu passa ‘u cummientu.  Si  jati  ‘ntra  l’uatre  cantine  ‘u  vino  è  fatto  ‘ccu  acitu  e  acqua.  L’amure  de  nua  calavrisi  ppe’ re  Firdinando  vò  puru  su  sacrificiu.

 

(Si,  lo sanno  tutti che aggiungo acqua al  vino,  ma  questo offre il convento.  Se andate nelle altre cantine  il vino è fatto d’aceto e acqua.  L’amore di noi calabresi per re Ferdinando  richiede anche questo sacrificio).

 

“Ogliaruolu”, un po’ ubriaco, sentendo le parole dell’oste, parla guardando nella Mdp.

 

              OgliaruoluI  calavrisi  ppe’ Firdinando? Ma  nun  dicimu fissarie. Quannu misi fà  Re  Giuseppe è  sciso  n’Calabria, l’annu tutti  festeggiatu e ci hannu fattu i  cumprimenti I  calavrisi  curranu  sempe  arrieti  aru  carru  du vinciture.

 

(I calabresi per  Ferdinando? Ma non raccontiamo fesserie. Quando mesi fa  Re  Giuseppe è venuto in Calabria tutti lo hanno festeggiato e gli hanno fatto i complimenti I calabresi corrono sempre  dietro al carro del  vincitore).

 

I giocatori di dadi e i loro amici guardano  “Ogliaruolu” e l’oste  lo rimprovera con tono severo.

 

Oste: Ogliaruolu, statti cittu, ca  sì ‘mbriacu  e  ti  po  minta  ‘ntra  li  guai.

            (Ogliaruolu, stai zitto che sei ubriaco e  ti puoi  mettere nei guai).

 

“Ogliaruolu” beve d’un fiato il bicchiere di vino.

 

OgliaruoluNun mi spagnu ‘i nessunu, staiu diciennu ‘na  cosa  ca  sannu tutti. Oje  all’Amantia  gridanu ‘ppe Firdinandu, ma si dumani avisseru de venire n’atra  vota  i  francisi,  facerrano festa  a  Bonaparte.  A gente  vò bene  all’unu  o  all’autru  re,  non  pecchì li piacia, ma  ppe’ interesse o ppe’ paura. I  giacubbini  si  su tagliati  i capiddri ‘ppe si fa canusce, ma  è bastatu ‘u  tiempu ca li sù crisciuti ppe’diventare  monarchici!  Nu saccu ‘i surdati de  l’esercito borbonicu  sunnu  passati  cu  Napuliune  ‘ntru tiempu de ‘na  nottata.

(Non mi spavento di nessuno, sto dicendo una cosa che  sanno tutti. Oggi ad Amantea gridano per Ferdinando, ma se domani verranno nuovamente  i francesi farebbero festa a  Bonaparte.  La gente vuole bene all’uno o all’altro sovrano non perché gli piace, ma per interesse o per paura. Molti giacobini si sono tagliati i capelli per farsi riconoscere,  ma è bastato il tempo che gli sono cresciuti per diventare  monarchici!  Molti soldati dell’esercito borbonico sono passati  con  Napoleone nel tempo di una notte).

 

 

SCENA 17. Cartello

 

Amantea, 27 settembre 1806.

 

 

 

 

 

 

SCENA 18. Esterno giorno. Fiumara

 

Un ragazzo in divisa suona il tamburo precedendo una colonna di soldati dell’esercito napoleonico. In prima fila si vedono il generale Verdier con i suoi ufficiali e  i  portabandiera. Seguono un reggimento di linea e di fanteria, un battaglione di  guardie civiche e compagnie di voltigeurs. Il sergente Dupont, in testa al suo plotone,  inizia ad intonare  con voce possente  “La Carmagnole”.

          

         Sergente Dupont:   Madam’ Véto avait promis (bis)

                                        De Faire égorger tout Paris (bis)

                                         Mais le coup a manqué

                                        Grâce à nos canonniers

                                         (Refrain)

                                        Dansons la Carmagnole,

                                        Vive le son, vive le son!

                                        Dansons la carmagnole,

                                         Vive le son du canon!

                                         Monsieur Véto avait promis (bis)

                                         D’être fidèle à soy pays (bis)

                                          Mais il y a manqué

                                         Ne faisons plus d’quartier

                                          (Refrain)

 

(La signora Véto aveva promesso di fare sgozzare tutta Parigi, ma ha mancato il colpo grazie ai nostri cannonieri (ritornello).  Balliamo la Carmagnola, viva il suono, viva il suono! Balliamo la Carmagnola, viva il suono del cannone! Il signor Véto aveva promesso di essere fedele al suo paese, ma ha mancato il colpo, non abbiamo più pietà).

 

 

 

SCENA 19. Interno giorno. Amantea. Chiesa di Sant’Antonio

Il sagrestano tira con forza le corde delle campane.

 

SCENA 20. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio. Campanile

Le campane suonano.

 

SCENA  21. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta

Fuori campo si sentono le campane a stormo. Gli assediati si affacciano dalle mura e, alla vista dei francesi, sventolano bandiere borboniche, gridano frasi ingiuriose, si calano le  brache e  mostrano il sedere.

 

 

SCENA  22. Esterno giorno. Mare

Il sole tramonta sul mare.

 

SCENa 23. Esterno notte. Accampamento napoleonico

I soldati francesi bivaccano intorno ai fuochi. Gustave Charpentier, un sottufficiale dei voltigeurs, è seduto insieme al caporale  polacco Jakobosk di fronte ad un  paiolo dove  bolle orzo. Riempie col mestolo una tazza, vi versa  un po’ di  acquavite e comincia a sorseggiare. Ha l’aria stanca e sulle spalle  una pesante coperta. Guarda nella Mdp e parla con calma.

 

   Sergente Charpentier: Je m’appelle Gustave Charpentier et je suis un sous-officier de voltigeurs. Je viens de la basse Lorraine et, lorsque j’étais civil, j’étais couturier. C’est dupuis le début de la révolution que  fais mes  armes et je sens que nous sommes en train de partecipir à une mission historique. Nous ne sommes pas venus en Calabre pour voler et tuer mais avec une sainte raison  qui est celle de construire un monde libre et indépendant.

Tous les despotismes et les privilèges qui existaient dans les États italiens seront détruits, toutes  les formes d’esclavage moral et social qui se sont développées sous  le régime  féodal seront  combattues. Avec nos troupes nous sommes en train d’exporter les idéaux  de la Révolution française: liberté, egalité, fraternité. Nous l’exportons avec les fusils et les canons non parce que nous aimons  la guerre mais parce que nous y sommes forcés. La noblesse   et le clergé  ne veulent pas perdre leurs privilèges et  se servent de gens pauvres et superstitieux pour nous combattre.  Sincèrement, je ne comprends pas la haine  de la population envers nous; les gens devraient  nous remercier pour ce que nous sommes en train de faire.

 

(Mi chiamo Gustave Charpentier e sono un sottufficiale dei voltigeurs. Vengo della Bassa Lorena e da  civile facevo il  sarto. E’ dall’inizio  della  rivoluzione che  sono sotto le armi e sento che sto partecipando  ad  una  missione che sconvolgerà il mondo e la storia.  Noi  non siamo  venuti in Calabria  per rubare e uccidere, ma per un santo scopo che è quello di costruire un mondo libero e indipendente. Tutti i dispotismi e i privilegi che c’erano negli stati italiani noi li distruggeremo, tutte le schiavitù morali e sociali  costruite dal sistema feudale noi le combatteremo. 

Con le nostre divisioni stiamo esportando gli ideali della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità. Li stiamo esportando con i fucili e i cannoni non perché amiamo la guerra ma perché siamo costretti. Nobili e chierici non vogliono perdere i loro privilegi e si servono della gente povera e superstiziosa per combatterci.  Francamente non capisco l’odio della popolazione verso di noi, dovrebbe ringraziarci per quello che stiamo facendo).

     

Il caporale  Jakobosk, dopo avere svuotato la pipa battendola sullo stivale, inizia a parlare guardando anche lui nella Mdp.

 

 Caporale Jakobosk: Je m’appelle Jakobosk et je suis polonais. Notre armée, commandée par le général Napoléon Bonaparte,  a pour mission de nous faire entamer une nouvelle ère. Partout, abattre les monarchies séculaires et construire des républiques modernes. Pour changer  les choses il  faut  du temps et de la patience.

       (Mi chiamo Jakobosk e sono polacco. Il nostro esercito, comandato dal generale Napoleone Bonaparte, è composto da soldati di ogni nazione e  ha  la missione di dare inizio ad  una  nuova  era. Abbattere dovunque le secolari monarchie e costruire le moderne repubbliche. Per fare le cose ci vuole però tempo e pazienza).

 

Jakosk guarda il suo compagno e sorride.

 

                   Jakosk: Qui veut manger rapidement sème des radis mais  doit se contenter de racines; qui veut manger du pain sème du blé mais doit attendre  une année.

                 (Chi vuole mangiare presto semina ravanelli ma deve accontentarsi di radici; chi vuole mangiare pane  semina grano ma deve aspettare un anno).

 

 

SCENA  24. Esterno giorno. Amantea. Bastione porta sud

 

Sulle mura della porta sud  gli assediati  osservano vigili e preoccupati. Si notano soprattutto i briganti con le facce barbute sotto i cappelli a cono, le carabine ad armacollo e le else dei pugnali che escono dalle tasche delle brache.

 

 

SCENA  25. Esterno giorno. Amantea. Porta sud.

 

Poco distante dalle mura della porta sud, Berthelot, un ufficiale francese, sguaina la sciabola e incita i suoi alla battaglia.

 

         Berthelot: Vive la France révolutionnaire! Vive le général  Napoléon Bonaparte !

                          (Viva la Francia rivoluzionaria! Viva il generale Napoleone Bonaparte!).

 

 

I fucilieri della guardia scaricano i loro moschetti contro i lealisti. Gruppi di soldati, in ordine sparso, coperti dal fuoco dei  compagni, cercano di scavalcare le mura con lunghe scale di  legno. La fanteria, incitata dal rullo dei tamburi, assalta la porta del paese, ma gli insorti, incitati dai capi  briganti Mele e Malanima, reagiscono sparando, buttando pietre e acqua bollente. Le fucilate si confondono  a urla, bestemmie e voci di comando. Diversi soldati napoleonici cadono morti o feriti. Fra loro, riverso a terra,  il tamburino della colonna con accanto il suo strumento. Un trombettiere francese suona la ritirata e gli assediati esultano gridando: “Morte ari francisi! Morte ari giacubbini!” (Morte ai francesi, morte ai giacobini).

 

 

SCENA 26. Esterno notte. Fiumara

 

La colonna francese risale in fretta la fiumara per inoltrarsi nelle montagne.

 

 

SCENA 27. Esterno notte. Amantea. Bastione porta sud

 

Gli insorti sulle mura sparano colpi di fucile e urlano dalla gioia.

 

 

SCENA 28. Esterno notte. Amantea. Porta sud

 

Diversi popolani con grandi ceste e torce in mano escono dalla porta e raccolgono fucili, pistole e sciabole. Le donne spogliano i soldati e il tamburino uccisi che rimangono completamente nudi. Due voltigeurs, tra cui il sergente Charpentier, ferito alla fronte, vengono fatti prigionieri da un gruppo di briganti e popolani guidati dal brigante Mele.

 

 

 

SCENA 29. Esterno giorno. Spianata

 

Tredici giacobini sono disposti in fila con le mani legate dietro la schiena. Lontano un gruppo di  donne  con  i loro figli piangono, si inginocchiano e chiedono pietà. Il prete Montoja con un crocefisso in mano  dà conforto ad un “patriotta” ma questi rifiuta. Briganti, popolani ed ex ufficiali dell’esercito borbonico puntano i  moschetti a pochissima distanza dai petti dei prigionieri e sparano. I giacobini stramazzano a terra e due  rantolano feriti. Mele si  avvicina  e  li  trafigge con la sciabola.

 

 

SCENA 30. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio

Davanti alla chiesa alcune donne stanno intorno ad un grande calderone dove bolle acqua. Vicino, su un lungo tavolo, ci sono  ceste piene di maccheroni freschi e fiaschi di vino. Sulle scale “Pisci rè” e i suoi amici guardano alcuni musicanti che accordano gli strumenti. Poco distante frate Michele, un cappuccino dalla folta barba nera, è seduto su una sedia  per confessare alcuni briganti che  aspettano con i cappelli in mano. “Malanima”, un giovane dai lunghi capelli neri, con gli orecchini e un elegante vestito di velluto nero  gli si avvicina e si inginocchia.

 

Malanima: Frate, io e la banda mia amu campatu d’ammazzamienti e d’arrobbamienti  puru  quannu  un  c’erano ‘i francisi. ‘Ppe  nua stare ara macchia  è  nu  lavuru,  nu  modu  pe’ campare  buonu.  Mangiamu  carne e pane  iancu  tutti i  iuorni  e vestimu  miegliu  di  li galantuomini. Simu  briganti  e  sacciu  ca cussì  restàmu   puru   s’averra  di venire torna  Firdinando.

(Frate, io e la  banda  mia abbiamo  vissuto di rapimenti e di furti anche quando non c’erano i francesi. Per noi stare alla macchia è un mestiere, un modo per campare bene. Mangiamo carne e pane bianco tutti i giorni e vestiamo meglio dei galantuomini.  Siamo briganti e so che tali restiamo  anche se dovesse tornare Ferdinando).

 

SCENA 31. Interno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio

Padre Montoja da le ostie sacre  al capo brigante Mele e agli uomini della sua banda che sono inginocchiati davanti all’altare.

 

SCENA 32. Interno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio

 

Frate Michele sta confessando Malanima.

 

      Frate Michele: Caro Malanima, so chi sei. Ti conosciamo tutti per fama. La  tua banda  ha terrorizzato  la  provincia, ma oggi chi combatte nelle fila  dell’esercito cristiano è purificato dalla stessa mano di Dio. Voi in questo momento siete dei crociati e io ti assolvo da tutti i tuoi peccati  in nome di Cristo, della  Madonna  e dei  santi.

 

“Malanima” si fa il segno della croce, si alza e si avvia verso la chiesa. Un compagno si  avvicina  al  frate e  si  inginocchia.

 

 

SCENA 33. Interno giorno. Chiesa di Sant’Antonio

 

“Malanima” entra nella chiesa affollata di gente. Le donne sono sedute tra i banchi, mentre gli uomini, quasi tutti armati di pistole e pugnali, sono in piedi e hanno il cappello in mano. Sull’altare  la nobildonna Laura De Lauro sta leggendo una lettera. Alle sue spalle, nelle mani della statua di sant’Antonio, si vedono  pezzi  di catene.

 

      Nobildonna Laura: A voi, popolo di Amantea, vanno i miei sinceri ringraziamenti e le mie preghiere per aver difeso con eroismo la santa religione e la santa monarchia dagli odiati nemici francesi e giacobini. A guerra finita il nostro amato re e io stessa sapremo ricompensavi per il  vostro coraggio, il vostro sangue e la vostra fedeltà. Vi benedico tutti. Vostra amata regina Carolina.

 

La nobildonna Laura piega la lettera e si rivolge ai presenti un po’ emozionata. 

         Nobildonna LauraQuesto è  ciò  che ci  ha scritto la  nostra amata regina. La mia famiglia, come ha già fatto anni fa’ dopo la fine della repubblica napoletana,  ha  voluto che  oggi si celebrasse  un Te Deum per ringraziare Nostro Signore di averci  liberato dal  canagliume ateo e libertino.  Al termine della  messa suoneremo tarantelle e  mangeremo   maccheroni.

Una giovane nobildonna comincia a cantare il Te Deum.

     Cantante: Te Deum laudamus,

                      te Dominum confitemur.

                      Te aeternum Patrem,

                      Omnis terra veneratur.

                      Tibi omnes Angeli,

                      tibi caeli et universae Potestates,

                      tibi Cherubim et Seraphim,

                      incessabili voce proclamant.

                      Sanctus, Sanctus, Sanctus,

                      Dominus Deus Sabaoth.

                      Pleni sunt caeli et terra

                       maiestatis gloriae tuae.

                       Te gloriosus Apostolorum chorus,

                       te Propetharum laudabilis numerus,

                       te Martyrum candidatus

                       laudat exercitus.

                       Te per orbem terrarum

                       Sancta confitetur Ecclesia,

                       Patrem immensae maiestatis;

                       venerandum tuum verum et unicium Filium,

                       Sanctum quoque Paraclitum Spiritum.

                    

                       Tu rex gloriae, Christe.

                       Tu Patris sempiternus es Filius.

                       Tu, ad liberandum suscepturus Hominem,

                        non horruisti Virginis uterum

 

 

SCENA 34. Esterno giorno. Amantea. Vicolo II

 

Nel vicolo Rosinella sta spidocchiando  i capelli di sua figlia Mariettina con un pettine d’osso. La donna  sorride e  guarda  nella Mdp.

 

                 Rosinella:   E’ giustu ammazzare i giacubbini!  Me  li ricuordu  buonu, parìano tutti ricchiuni. Purtavano  i  capiddri  curti  e  avianu  vestiti  de  pannu  turchinu  ccu  buttuni di matreperla. Si  facìano chiamare “patriotti” e  si muotichiavanu  ‘ntra le vie de’ l’Amantia  cumu  si  fosseru a Parigi. ‘Ntra chiazza nu iurnu hannu chiantatu nu travu  e ci  ‘annu  appicatu  pampine, nastri  de  tri culuri e ‘nu  cappieddru. Dicìano ch’era  l’arvulu  da  libertà  e  ca  volianu  l’uguaglianza.  Ma  io dicu: picchì certi galantuomini  averranu ‘i  voliri  l’uguaglianza? Picchì  gente  ricca  vò  diventare cumu  li  povari?

 

(E’ giusto ammazzare i giacobini! Me li ricordo bene, sembravano tutti ricchioni. Portavano i capelli corti  e  avevano vestiti in  panno turchino con bottoni di madreperla. Si facevano chiamare “patriotti” e sculettavano nelle vie di Amantea come se fossero a Parigi. In  piazza un giorno hanno  piantato un tronco e ci hanno appeso  foglie, nastri tricolori e un cappello. Dicevano che era l’albero della  libertà  e  che volevano  l’uguaglianza.  Ma io dico perché dei galantuomini  dovrebbero volere l’uguaglianza? Perché gente ricca vuole diventare come i poveri?).

 

 

 

 

La donna riprende a pettinare la ragazza, poi si ferma e guarda nuovamente nella Mdp.

 

              Rosinella:        I francisi? I  francisi  sù  cumu  i giacubbini!  Chi sunnu venuti a  fari?

                                     Ppe’ ‘nteresse!

                             (I francesi? I  francesi sono come i giacobini! Che sono venuti a fare?

                                         Per interesse!).

 

La donna sorride.

 

                                   Rosinella: Cumu dicia  a canzune:

                                           ‘Su  bbenuti li  francisi, autre tasse ci hanno misu.

                                            Libertè, egalitè  e  fraternitè,

                                             io arruobbo a te, e tu arruobbi a  me’.

                                        (Come dice la canzone: ‘Sono  venuti  i francesi, altre tasse ci hanno   messo.  

                                                        Libertà, eguaglianza e fraternità,  io rubo a te, e tu rubi a  me’).

 

La donna  si  rivolge  alla figlia Mariettina.

 

       Rosinella:  Marietti’,  fa  sente  ‘a   poesia  ca  dicia  sempre  zu  Peppinu!

                          (Mariettina,  fai  sentire la  poesia che  dice  sempre zio Peppino!).

 

La bambina fa spallucce facendo capire che non ne ha voglia. Rosinella guarda nella Mdp.

 

         Rosinella:  Fratima  Peppinu si l’ha ‘mparata quannu è juto  a Napuli ccu ru

                           cardinale Ruffo.

                                   (Mio fratello Peppino  l’ha imparata  quando è andato a Napoli con il cardinale Ruffo).

 

 

 

Rosinella insiste scuotendo la figlia.

 

               Rosinella:    E  da’  Mariettì, nunn’avire  vrigogna!

                                                (E dai Mariettì, non avere vergogna!).

 

La bambina convinta  si alza  e recita la poesia mentre guarda nella Mdp.

 

       Mariettina:    Or che troncato è l’albero,  Sire ritorna al trono.

                            Lo scettro e l’ostro sono,  già preparati a te.

                            La  libertà chimerica, perà tra  fuoco e sangue.

                            Muoia  il  veleno e l’angue, muoia  la libertà.

                            Ai nostri piè trafitti, cadano i giacobini.

                            E i franchi cisalpini, muoiano tutti or or.

                            Or che troncato è l’albero, ognun cantando intona.

                            Evviva la corona, de Ferdinando re.

 

La mamma mette una mano sulla spalla della figlia e guarda orgogliosa nella Mdp.

 

                Rosinella:    Ma  cumu  ‘a  dicia  bella!  E’ ‘na  vera attrice!

                            (Ma come la  dice bella!  E’  una  vera attrice!).

 

 

SCENA 35. Esterno giorno. Amantea. Vicolo III

 

‘Ntonetta e sua zia Annina, sedute davanti alla porta di casa, stanno frantumando  pietre di sale dentro i  mortai. Di fronte a loro c’è  “Gruongu”, un anziano  con una giubba, pantaloni a strisce e un cappello di lana. ‘Ntonetta parla con  l’uomo che  ripara una  grande cesta di canne intrecciate.

 

 

         Ntonietta:  Nua   fimmine  simu  stuffe  di  ‘ssa  guerra.

                                    (Noi donne siamo stufe di questa guerra).

 

Interviene l’uomo.

 

                     Gruongu:   A  nuddru  piace ‘a  guerra, ma  ci  vò,  pecchì  sinnò  ‘i  francisi si  piglianu   

                                          ‘i  terre  e  ni   fannu  siervi.

                             (A  nessuno piace la guerra, ma è necessaria, perché altrimenti i  francesi si  pigliano

                                            le  terre e ci  fanno servi).

 

‘Ntonetta smette di pestare il sale e risponde decisa.

 

               Ntonietta: E  chini ‘i tena  ‘i  terre? E  nua  fimmine  un  simu già  serve? ‘Ppe gente cumu  a  nua,  vivare sutt’i  francisi o li borboni è ‘a stessa cosa. Sempre  pezzenti  rimanimu!

(E chi ce l’ha le terre? E noi donne non siamo già serve? Per gente  come  noi  vivere sotto i  francesi  o i  borboni  è  la stessa cosa. Sempre  pezzenti  rimaniamo!).

 

GruonguNtoniè,  ‘a  vita  nunn’ è  fatta  sulu  di  cancariare  e dorme! Ci sunnu  autre cose  ‘mportanti  cumu  la  patria,  la   famiglia  e  l’onore. I  surdati  di  Napuliune  si  futtano  ‘i  fimmine  e  l’appestano curu  male  francise.  Nue   masculi  avimu   di  difennere  l’onore.

(Antonietta, la vita non è fatta solo di mangiare e dormire! Ci sono altre cose importanti come la patria, la  famiglia  e l’onore. I soldati di Napoleone  si  fottono  le  femmine e  le  appestano con il  male  francese. Noi maschi   dobbiamo  difendere l’onore).

 

         Ntonietta: I calavrisi s’arricordano di l’onure sulu quannu li cummena. E quannu  ‘u  barune  adocchia ‘na  fimmina  e si la  futta,  picchì  mariti e  fidanzati ‘un  sunnu  gelusi?

 

          (I calabresi si ricordano dell’onore solo quando gli conviene. E quando il barone adocchia una donna  e se la  fotte  perché i mariti e i fidanzati non sono gelosi?).

 

Interviene il vecchio infastidito.

 

Gruongu:  Vua  fimmine  aviti  sempre ‘na  risposta  ppe’ tutto, siti  a  causa  e  tutti  i  mali. Quannu cummanna ‘na  fimmina, a casa va’ a ruvina. Ha cummannatu  e  sta  cummannannu  Carulina   e  ‘u  regnu  è  jutu  a  piezzi!

(Voi donne  avete sempre una risposta per tutto, siete la causa di tutti i mali. Quando comanda la femmina, la casa va in rovina.. Ha comandato e sta comandando Carolina e il regno è andato a pezzi!).

 

 

SCENA  36. Esterno giorno. Amantea. Vicolo IV

 

Un mendicante, avvolto in un lacero mantello  e con un grande cappello in testa, sale il vicolo appoggiandosi a un bastone. Si ferma per prendere fiato, si toglie il cappello e parla guardando nella Mdp dopo essersi asciugato il sudore della fronte.

 

Mendicante: Giacubbini o sanfedisti? Francisi o borboni? Io  signu  ppe’ chini  mi  duna  de  dormire, de vivere  e  de  mangiare!

                                 (Giacobini o sanfedisti? Francesi o borboni? Io parteggio per chi mi dà  da dormire, da  bere e da mangiare!).

 

 

 

 

 

SCENA  37. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta.

 

“Malanima”, seduto con i suoi compagni, guarda alcuni operai che stanno sistemando un muro.  Delle donne trasportano pietre dentro grandi ceste e le scaricano vicino ai muratori. Il giovane brigante guarda nella Mdp.

 

                   MalanimaI francesi  si  sù  ritirati, ma  ‘un  criju  c’annu  lassatu l’uossu.   Ppe’  mia  ‘a  decisione  de  ni  chiuda  ‘ntra  la  rocca  è  sbagliata. ‘I  muri  d’Amantia  sù  forti, ma  risicamu   d’essere pigliati ‘ntra tagliola  cumu  surici. U  Patreterno  ‘a  nua  calavrisi  n’ha  datu  vuoschi e muntagne addue nuddru esercitu  po’ trase. E’  ddra  c’avimu  i  fare ‘a  guerra.  Attaccare e fujere, attaccare e fujere!

 

(I francesi si sono ritirati, ma  non credo che hanno mollato l’osso. Per me la  decisione di chiuderci  nella  rocca  è  sbagliata. Le mura di Amantea sono solide, ma rischiamo di rimanere intrappolati come topi. Il Padre Eterno a noi calabresi ci ha dato boschi emontagne dove nessun esercito può entrare. E’ là che dobbiamo fare la guerra. Attaccare e scappare, attaccare e scappare!).

 

SCENA 38. Cartello

Amantea,  3 dicembre  1806.

 

 

SCENA  39. Esterno giorno. Fiumara

Tre suonatori di tamburo con un rullio ossessivo segnano il passo dell’esercito francese. Davanti ai  soldati  ci sono  i generali  Reynier, Verdier,  il colonnello Amato e altri ufficiali. Dietro seguono battaglioni di granatieri, fucilieri, corsi, dragoni, guardie civiche e voltigeurs con  aquile e  guidoni. Si vede anche un reparto  di artiglieri con  cannoni e  obici e soldati del genio con lunghe scale, picconi, pale, corde e  altro materiale per l’assedio. In coda ci sono due carrozzoni, civili che portano sugli asini masserizie, viveri  e  munizioni e  pastori che  guidano un mandria di pecore e vacche.

 

 

SCENA 40. Interno Giorno. Chiesa di sant’Antonio

 

Il  sagrestano tira con forza le corde delle campane.

 

 

SCENA 41. Esterno giorno. Chiesa di sant’Antonio. Campanile

 

Le campane suonano.

 

 

SCENA 42. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta

Gli assediati, alla vista dei francesi, si affacciano dalle mura e sventolano bandiere dell’esercito borbonico, gridano frasi ingiuriose, fanno le corna e mostrano il sedere. 

 

 

SCENA 43. Esterno giorno. Amantea. Porta nord

Un battaglione di fucilieri francesi si posiziona davanti alla porta nord del paese.

 

 

SCENA 44. Esterno giorno. Amantea. Porta  sud

Un reparto del genio e un battaglione di corsi si accampano davanti alla porta sud del paese.

 

SCENA 45. Esterno giorno. Amantea. Spiaggia

Un reparto  della guardia raggiunge  la spiaggia davanti al paese.

 

 

 

SCENA 46. Esterno giorno. Amantea. Collina

 

Compagnie di voltigeurs si sistemano sulle colline alle spalle del paese.

 

 

SCENA 47. Esterno giorno. Mare

 

Il sole tramonta sul mare.

 

 

 SCENA 48. Esterno notte. Amantea. Galleria porta sud

Gli zappatori dell’esercito napoleonico stanno scavando una galleria sotto le mura  della porta sud. Lavorano con picconi e pale riparandosi dal fuoco nemico dietro cumuli di fascine e sacchi di terra. La terra scavata viene portata in  grandi ceste di giunco.  Un ufficiale del genio, Goguet,  ha dei fogli in mano, e dà  disposizioni ai  suoi  soldati. Si gira e guarda nella Mdp.

        

               Ufficiale GoguetNous avons  sous-estimé  l’ennemi. Au début nous avons pensé que cette ville était une faible garnison composées de gens  de toutes sortes  et mal armé, mais après plusieurs assauts nous avons compris que la bataille serait longue. La forteresse a  des murs très solides  et il est  difficile de s’en approcher à cause de  l’aspérité du terrain.  En autre, les insurgés ont prouvé  d’être très habile dans le combat, d’avoir un mépris insouciant pour  la mort et une haine implacable  envers  nous. Cette fois nous sommes venus pour assiéger la ville.  Nous ferons en sorte que personne ne puisse apporter ni vivres ni armes à l’intérieur de la garnison, nous effectuerons de fausses attaques pour que les assiéges gaspillent leurs munitions, constamment nous ferons feu  avec l’artillerie pour les  énerver et les affaiblir.

 

(C’è stata una sottovalutazione del nemico. Inizialmente abbiamo giudicato questa città un debole presidio di gente raccogliticcia e male armata, ma dopo i ripetuti assalti ci siamo resi conto che la battaglia è lunga. La  roccaforte ha solidissime mura ed è difficile  avvicinarsi ad essa per le asperità del terreno. Gli insorti hanno dimostrato inoltre di essere molto abili nel combattimento, di avere un noncurante disprezzo verso la morte e un odio implacabile verso  di noi.

Stavolta siamo venuti per assediare la città. Faremo in modo che nessuno possa portare viveri e armi nella roccaforte, effettueremo  finti attacchi per far sprecare munizioni agli assediati, spareremo costantemente con l’artiglieria per innervosirli e fiaccarli).

 

L’ufficiale indica con la mano l’imbocco della galleria.

 

Ufficiale Goguet: Mes soldats sont en train de construire une galerie pour istaller une mine sous le bastion et créer une brèche lors de  l’attaque finale.

                          (I miei soldati stanno costruendo una galleria per sistemare una mina sotto il bastione e creare una breccia per l’attacco finale).

 

 

SCENA 49. Esterno notte. Collina

 

L’artiglieria francese  posiziona i cannoni  e comincia a sparare.

 

 

SCENA 50. Esterno notte. Amantea. Casa

 

Le palle di cannone fanno crollare una casa.

 

SCENA 51. Esterno notte. Amantea. Chiesa di sant’Antonio

 

Le palle di cannone  centrano la chiesa  e  i  vetri vanno in frantumi.

 

SCENA 52. Esterno giorno. Amantea. Vicolo I

Le campane suonano a  stormo e  si sentono salve di mortaretto. Dai balconi e dalle finestre, dove sono esposti panni e lenzuola bianchi, sono affacciati donne e bambini. Nel vicolo stanno salendo i membri di una confraternita vestiti con sai bianchi, cappucci e mozzette di seta celeste con relativo cordone. Portano alla cintola una feluca di feltro bianco e calzano scarpe di panno. Il rettore della confraternita impugna un bastone di malacca col pomo d’avorio. Dietro di loro alcuni popolani portano la  statua di Sant’Antonio, che ha in mano  pezzi di catena. Ai lati della statua si vedono  “Mele” e la sua banda, la nobildonna Laura, Padre Montoja  e  frate Michele che tiene una pistola e un crocefisso appesi  al cordone. Un gruppo di musicanti diretti da un giovane, detto “Sona sona”, suonano tamburelli, pifferi e grancassa. Intorno  ci sono decine di bambini guidati da “Pisci rè”. Nel corteo c’è grande euforia ed eccitazione. I briganti, alzando minacciosamente i fucili, gridano: “A morte i francisi e i giacubbini! Viva sant’Antonio! Evviva u Re!”.

 

SCENA 53. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio

Il corteo si ferma  davanti alla chiesa di sant’Antonio, la nobildonna Laura sale sui gradini e tiene un discorso.

           Nobildonna Laura: Popolo di Amantea, i francesi a migliaia  hanno accerchiato il paese. Uscite dalle case e unitevi a noi per difenderla. I francesi e i loro servi giacobini vi hanno detto che   vogliono portare  libertà e uguaglianza, ma  vi hanno raggirato con false promesse,  hanno il miele in  bocca  e  il  fiele nel cuore. Il  loro vero  scopo è cacciare il nostro amato sovrano e  pigliarsi  la nostra patria.

Tutti quelli che si uniranno all’esercito di Cristo, della Madonna e dei santi avranno denaro e cibo in abbondanza e domani saranno ricompensati dalla nostra buona sovrana Carolina e dal nostro amato Re Ferdinando.

 

Frate Michele, prende un pezzo di catena in mano al santo e la mostra alle persone affacciate alle finestre e ai balconi.

 

         Frate Michele: Sette anni  fa  Sant’Antonio ha  spezzato le  catene con cui ci volevano legare i repubblicani. Riuniamoci come in passato  nell’armata cristiana. Ricordatevi che un giorno dovremo morire e allora facciamolo per una causa pura e santa: la  causa di Dio, del re e della patria. Ammazziamo i cani francesi e giacobini e  buttiamo  i  corpi  putrefatti  in  pasto ai pesci.

 

La gente  applaude entusiasta e i musicanti iniziano a cantare l’inno sanfedista.

 

 

SCENA 54. Interno giorno. Bottega speziale

 

Lontano si sentono i musicanti che suonano e cantano. Lo speziale sta lavorando nella bottega dove si vedono scaffali con scatole, mortai e vasi di maiolica decorati. Pesa con la bilancia una polvere che prende da un’antica ceramica e la mette in un bicchiere d’acqua, mescola con cura e versa  il liquido in una piccola bottiglia di vetro. Vi aggiunge dell’erba tritata che prende da un barattolo e agita guardando nella Mdp.

 

           Speziale:  Sono molto addolorato per questa guerra. La gente soffre ma nessuna mia miscela può curare le  sue ferite. Amantea mille anni  fa  è stata  presa dagli arabi che hanno  trasformato le  chiese in moschee e  hanno sostituito le  croci con le mezzelune. Il suo stesso nome  deriva  da  Almantiah! 

Noi  vogliamo bene ad Amantea  e  non  vogliamo  che cada nuovamente in mano nemica. I nostri padri l’hanno sempre difesa con  i denti  e i sovrani  in  passato hanno stabilito che nessuno potesse venderla o darla in  feudo e che se ciò accadeva gli amanteoti potevano difenderla con le  armi senza incorrere nella  pena  di  ribellione.

Amantea è la cosa più bella che abbiamo: “Stilla di l’Amantia quantu si bella! Tu si’ crisciuta a parti di marina. Lu mari ti mantene  frisca e bella, cumu na rosa russa a lu giardinu”.

 

 

SCENA 55. Esterno giorno. Amantea. Vicolo III

 

Il corteo sale lungo il vicolo. ‘Ntonetta guarda preoccupata mentre Gruoncu applaude contento.

 

               Suonatori: A lu suono da grancascia,

                                  viva lu popolu vascio,

                                  A lu suono di tammurielli

                                  su’ risorti li puverielli.

                                  A lu suono de campane

                                  viva viva li populane.

                                  A lu suono di viulini,

                                  morte alli  giacubbini.

 

(Al suono della grancassa, viva il popolo basso, Al suono dei tamburelli, sono risorti i poverelli. Al suono delle campane, viva viva i popolani. Al suono dei violini, morte ai giacobini).

                                

 

SCENA 56. Esterno giorno. Amantea. Piazza piccola

 

Alcune popolane, al passaggio del corteo, applaudono e una di esse, “Malerva”,  guarda sorridendo nella Mdp.

 

Malerva: E’ certu  ca  simu  ppe’ re Firdinandu!  E  ppe’ chini averramu d’esse? Io sugnu quasi ‘na  vecchia  e  n’haiu  vistu passare acqua ‘ntra lu jume. Quannu è cangiato ‘u  guvernu,  ppe’ nua povera gente è cangiato sulu  ‘u  nume du  patrune.  Anzi, ogni  bbota  ch’è cangiata  ncuna  cosa,  pe’ nua  povera  gente sù stati guai.  Megliu  ca  tuttu   rimane  aru  postu  sua!

(E’ certo che siamo per re Ferdinando! E per chi dovremmo essere? Io sono quasi una vecchia e ne ho visto passare acqua nel fiume. Quando è cambiato il governo, per noi povera gente è cambiato solo il nome del padrone. Anzi, ogni  volta  che  è cambiato qualcosa,  per noi povera gente sono stati guai. Meglio che   tutto rimane al suo posto!).

 

La donna riprende a battere le mani e i suonatori continua a cantare.

 

            Suonatori: Sona sona

                               sona Carmagnola

                               sona li cunsigli

                               viva  ‘u  re ccu’ ra  Famiglia.

                               Aru  tridici  de giugnu

                               sant’Antoniu  gloriusu

                               I  signuri sti birbanti

                               Ci hannu fattu  ‘u   mazzu tantu

                               Su’ venuti  li Francisi,

                               autre tasse n’annu misu

                               Libertè… Egalitè…

                               io arruobbu a te

                               tu arruobbi  a  me.

 

(Suona suona Carmagnola, suona i cunsigli,   viva il re con la famiglia.  Il tredici di giugno sant’Antonio glorioso, i signori questi birbanti, gli fecero il           mazzo tante?Sono  venuti i Francesi,  altre tasse ci hanno messe. Libertà …  eguaglianza … io rubo a te tu rubi a me).

    

 

 

 

 

 

SCENA 57. Esterno giorno. Amantea. Piazza grande

 

Il corteo  arriva in piazza e  i  musicanti  suonano e  cantano l’inno sanfedista.

 

          Suonatori:  Sona sona

                              sona Carmagnola

                              sona li cunsiglia

                              viva u re ccu la Famiglia.

                              Li  francisi  su’ arrivati

                              ci hanno bbuonu carusati.

                              E  vualà  e  vualà

                              cavuci ‘n culo alla  libertà.

 

(Suona suona,   suona Carmagnola   suona i consigli    viva il re con la Famiglia. I francesi sono arrivati e ci hanno pelati per bene. E vualà e vualà,  calci in culo  alla libertà).

 

Rais, il pazzo del paese, vestito con degli scialli colorati e con degli amuleti attaccati al collo e delle campane legate ai fianchi, si mette a ballare al centro della piazza roteando un lungo coltello. Gli si avvicina Rachela una bella ragazza che si mette a ballare con lui.  La gente tutt’intorno  li applaude e ride. Il medico Salomone  e  Achille, un  giovane dai lunghi capelli biondi, un po’ in disparte dalla folla,  si guardano preoccupati.

 

 

SCENA 58. Esterno giorno. Amantea. Bastione porta sud

 

Il corteo arriva sino al bastione della porta sud  e  i portantini sistemano la statua del santo rivolgendola verso il mare a difesa del paese. “Mele” prende un fucile e lo mette tra le mani del taumaturgo in modo che sia ben visibile ai soldati francesi.

 

 

SCENA 59. Esterno notte. Amantea. Vicolo V

“Aluzza ninna”, un vecchio pescatore di Amantea, sta riparando una rete  davanti alla sua abitazione.  Sulla porta sono appese  due lunghe paia di corna. Ogni tanto si sentono colpi di cannone, sibili di palle e fragori.

 

                         Aluzza ninna:  Cuonzu  ‘i  rizze  sperannu  ca  prima  o  pue  puozzu  jire  torna   a 

                                                   piscare.

 

                                 (Riparo le reti sperando che prima o poi potrò andare nuovamente a pescare).

 

            Il vecchio indica la rete.

 

           Aluzza ninnaChissa è na “minaìta”e ci pigliamu alici,sarde e sguombri.Ccu‘sa rizza  si pisca puru de juornu, ma ci vo’mastria ara manjare pecchì add’esse calata a  chiummu e addi restare ‘mpisa a ‘nu puntu giustu.

            Sa  dannata guerra n’ha ruvinatu,ma ‘u bellu ancora addi venire. Si sta  abbicinannu  Natale e ‘u sapiti cumu dicimu nua all’Amantia?: “Prima ‘i Natale né  friddu, né  fame. Dopo  Natale  tremanu  i  criaturi  ‘ppe’ ru  friddu  e  ‘ppe’ ra  fame”.

            Fin’a pocu tiempu fa, ara luce du sule  vidiamu lampiare le trippe de li  pisci,‘mbece  mò vidimu sulu ‘u luccichiu d’ele baionette.Ci ni sù tanti francisi sutta li mura, certi mumenti paranu cumu l’alici quannu vulliano dintra l’acqua d’u mare. N’hanno  intrappolatu cumu i tunni ‘ntra cammera d’a morte. Quannu ‘u generale Reynier,‘u  rais francise, duna l’ordine di azare ‘a rizza, mancu sant’Antoniu  e tutti  l’auvutri  santi ni ponnu sarvare.

 

 

 

 

 

                        (Questa  è una “minaita” e  ci  prendiamo  alici, sarde e sgombri.  Con questa rete si pescare anche di giorno, ma ci vuole esperienza ad usarla perché deve essere calata verticalmente e deve restare sospesa ad una certa profondità.

              Questa dannata guerra ci ha rovinato ma il bello deve ancora venire. Si sta avvicinando il  Natale e lo sapete come diciamo noi ad Amantea: “Prima di Natale né freddo, né fame. Dopo Natale tremano i bambini per il freddo e la  fame”.

Fino a poco tempo fa  ai riflessi del sole vedevamo “lampiare” le pance dei pesci, mentre ora vediamo  solo il luccichio delle baionette. Ce ne sono tanti di  francesi  sotto le mura, certi momenti sembrano come le alici quando “vulliano” dentro l’acqua del mare. Ci hanno intrappolato come i tonni nella camera della morte. Quando il generale Reynier, il rais dei francesi, darà l’ordine di sollevare la rete, neanche sant’Antonio e tutti i santi ci possono salvare).

 

 

SCENA 60. Interno notte. Sagrestia

Sulla parete della sagrestia c’è un crocefisso dove è attaccato un pezzetto di carta  su  cui  è  scritto “viva il Re”. Frate  Michele  sta sfogliando un registro  parrocchiale e sul tavolo ci sono un fucile e una baionetta. Il frate  guarda  le armi e poi la Mdp.

 

                 Frate Michele: Lo so che non è bello tenere  armi  in sagrestia e non è  neanche bello ammazzare in  nome di Cristo. Io e i miei compaesani siamo  però costretti a  farlo perché i francesi  offendono e calpestano la nostra religione. In alcuni paesi si sono acquartierati nelle chiese, si allenano al tiro  con  le statue dei santi, abbeverano i cavalli nell’acquasantiera  e utilizzano gli arredi sacri per fare mascherate. Nel convento di un villaggio  qui  vicino  hanno rubato gli  ostensori e  la  pisside e hanno sparso per terra  le ostie consacrate.

I  giacobini  sono  degli  infami.  Non capisco come  tanti monaci e preti abbiano potuto aderire alla loro causa.  Dicono cose empie contro la religione cattolica, considerano superstizioni  la messa, la confessione, l’eucarestia, le astinenze, le preghiere, le processioni e i pellegrinaggi. Vogliono la cultura delle brutali passioni, della irreligione, della  sfrenata  licenza, della  scostumatezza  e  del  vizio.

 

 
Bussano forte alla porta.

 

            Frate Michele: Vengo, vengo. Un attimo di pazienza!

 

Frate Michele chiude il registro e riprende a parlare con calma guardando nella Mdp.

 

                  Frate Michele: La  nostra lotta è  santa  e  Cristo  la  benedice. In diversi paesi della Calabria  le statue delle Madonne si sono messe a piangere, ma i santi non sono remissivi come la Vergine. Ad Amantea alcuni fedeli hanno sognato  San Giorgio, che, vestito di bianco, a  cavallo del suo destriero e con la  lancia in mano,  faceva strage di soldati  francesi. Diverse persone hanno visto poi  sant’Antonio volare sulle mura de paese per deviare le palle dell’artiglieria napoleonica. Sant’Antonio  è  il  patrono d’Amantea ed è diventato il santo protettore del Regno da quando ha accompagnato a Napoli le schiere cristiane del cardinale Ruffo contro i  giacobini.

 

 

SCENA 61. Esterno giorno. Amantea. Bastione porta sud

Sulle mura si vede la statua di Sant’Antonio con il fucile a tracolla.

 

 

SCENA 62. Esterno giorno. Amantea. Porta sud

Adrien Guibinet, un medico militare francese, guarda la statua di sant’Antonio, si gira e parla davanti alla Mdp.

 

              Medico Guibinet: Je m’appelle Adrien Guibinet  et je suis  officier médicin de la Garde.  Un saint avec le fusil en bandoulière ce n’est pas une belle chose à voir. Prendre une sainte vierge et la remplacer par  une autre parce qu’elle n’est plus bonne à faire des miracles, cela n’a  rien à voir  avec  la foi.

               Beaucoup de prêtres calabrais encouragent ces pratiques superstitieuses. Nous soldats nous ne sommes pas de sans-culottes, Napoléon a dit  qu’un État n’existe pas  sans la religion. Nous ne voulons pas abolir la foi en Dieu,  mais nous voulons combattre les mensonges et le fanatisme religieux.

 

(Mi chiamo Adrien Guibinet e sono un ufficiale medico della Guardia. Un santo col fucile a  tracolla  non è una bella cosa da vedere.  Prendere  una  Madonna e  sostituirla con un’altra  perché non è più buona a  fare miracoli non ha niente a che fare con la fede. Molti preti calabresi incoraggiano queste pratiche superstiziose. Noi soldati non siamo  come i sanculotti della rivoluzione.  Napoleone ha  detto che non può esserci uno stato senza religione.  Non vogliamo abolire la fede in Dio, ma combattere le menzogne e  il  fanatismo religioso).

 

 

SCENA 63. Interno notte. Chiesa di Sant’Antonio

 

Le donne pregano devotamente tra i banchi della chiesa avvolte in pesanti scialli di lana. In  una cappella è allestito un modesto presepe intorno a cui ci sono due zampognari e diversi bambini. Le campane suonano annunciando la Gloria.  Le donne escono dai banchi e si avvicinano al presepe. Arriva padre Montoja, prende Gesù Bambino dalla tasca della tonaca, lo bacia e lo depone nella mangiatoia. Gli zampognari iniziano a suonare e tutti si abbracciano. Il prete si rivolge alle donne.

 

Padre Montoja: Gesù Bambino è nato  ma  non è  felice perché i francesi e i giacobini malvagi lo hanno oltraggiato.  Oggi  lui vuole che noi combattiamo contro i diavoli atei e libertini che hanno invaso la nostra terra. Andiamo alle mura dove sono i  vostri uomini e  stiamogli   vicino  in  questa  notte  santa.

 

 

 

 

SCENA 64. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta

Il cielo è nero, il mare è agitato e c’è un forte vento. Si sente  l’urto delle onde sulla riva, lo stridore del risucchio e il rimbalzare dei flutti.  “Garrubba” e Pennicchia, due giovani amanteoti, sono seduti vicino alle mura con i fucili  in mano. Si sente il rombo cupo dei colpi di cannone. “Garrubba” guarda nella Mdp.

 

           Garrubba: C’è pocu d’esse cuntienti. Chissu è nu  Natale  bruttu. Aru  postu  du  suonu di  zampugne si sentano  i corpi di cannune.

 

              (C’è poco da  essere contenti. Questo è un Natale  brutto.  Al posto delle suono delle zampogne si sentono i colpi di cannone).

 

Interviene  sorridendo  l’amico Pennicchia guardando nella Mdp.

 

            Pennicchia: Io? Io mi chiamu  Emilianu Pennicchia, ditto “menzasarda” e fazzu  u’  piscature ‘ntra  ‘na  sciabica  a  patrune.  Chi  vulìti  ca  vi dicu?!  Stasira  si  sentano  ‘u  strusciu  di  l’onde  e  di cannuni. Ppe’ mia  a  vera  musica  è  ‘u  rumure  d’u  mare.

 

               (Io? Io mi chiamo Emiliano Pennicchia, detto “menzasarda” e faccio  il  pescatore su una sciabica a padrone.   Che volete  che vi dica?!  Stasera si sentono  il rumore delle onde, le  zampogne e i cannoni. Per me la vera musica è  il rumore del mare).

 

Il vento fischia forte tra i merli delle mura. “Garrubba” riprende a parlare guardando nella Mdp.

 

             Garrubba: Ssu vientu di  dicembre è  malidittu.  Mamma  dicìa sempre: ‘E’ miegliu  avire ‘na   fucilata  aru  piettu  ca  ‘u  vientu  ari  spaddre’. ‘Sa  guerra  è  fatta  cchiù  di  pacienza  ca di battaglie, si mora  cchiù  di malatie  ca  di  ferite.

              Stamu  supra  ‘ssi  mura  e  aspettamu,  e  ‘u  tiempu   un  passa  mai.  Se  aju  de crepare  priegu ‘u Signure ca  fuosse ‘na  jurnata  cavuda, ccu  nu  bellu  sule  e  nu  cielu  serenu.

 

               (Questo  vento di dicembre è maledetto. Mia  madre diceva sempre: ‘E’ meglio avere una fucilata al petto che il vento alle spalle’. Questa guerra è fatta più di pazienza che di battaglie, si muore più di malattie che di ferite. Stiamo sopra le mura e aspettiamo, e il tempo non passa mai. Se devo crepare spero che sia una  giornata calda, con un bel sole e un cielo azzurro).

 

 

 

SCENA 65. Interno giorno. Cantina

 

Fuori piove a dirotto e si sentono i rintocchi di una campana. “Ogliaruolu” è in cantina  e  parla  guardando  la  Mdp.

 

OgliaruoluN’è  muortu n’autru. I  ‘ntinni di campane  all’Amantia  cangiano  si ‘u  morto  è  fimmina  o  masculu, s’è riccu o  è  poveru.  Ppe’ l’uomini si  sonanu  quattro  ntinni, ‘ppe  re  fimmine   tria,  ‘ppe  re  mamme  cinque. Si ‘u muortu  è  nu  nobile o nu  galantuomu, i campane sonano cchiù  vote. De quannu  è  cuminciatu  l’assediu  i campane sonano  ‘nzanu e guali  ‘ppe tutti. Armeno  ‘ssa  guerra  ‘ncuna  cosa  di  giustu  l‘a   fatta!

 

(Ne è morto un altro. I rintocchi delle campane ad Amantea cambiano  se il morto  è femmina o maschio, se è ricco o è povero. Per gli uomini  si suonano quattro rintocchi, per le ragazze  tre, per le madri  cinque. Se il morto è un nobile o un galantuomo, le campane suonano più volte. Da  quando è iniziato l’assedio le campane suonano continuamente ed  eguali per tutti. Almeno questa guerra qualcosa di giusto l’ha fatta!).

 

 

 

SCENA 66. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di sant’Antonio

 

Piove  e  alcune donne, tra cui  ‘Ntonietta, escono dalla chiesa portando con difficoltà un piccolo corpo avvolto in un lenzuolo sporco e lacero. Sono vestite  di nero e hanno i capelli sciolti. Una di loro ha in mano una croce di legno.

 

 

SCENA 67. Esterno giorno. Amantea. Vicolo V

 

Le donne attraversano il centro abitato e i compaesani, tra cui  “Aluzza ninna”, al loro passaggio si tolgono il cappello e  si fanno il segno della croce.

 

 

SCENA 68.  Esterno giorno. Amantea. Spianata del forte

 

Sulla spianata ci sono diversi  cumuli di  pietre con croci di legno. Alcuni corvi appollaiati sulla torre guardano intorno, mentre altri volano sinistramente in aria. Le donne arrivano e si fermano,  poggiano il corpo a terra e ‘Ntonietta ci mette sopra un pezzo di pane e una fiaschetta d’acqua. Cominciano quindi a coprirlo con  le pietre che raccolgono intorno. Soffia un  forte vento che fa svolazzare le gonne e gli scialli. “Ziarella”, una donna anziana,  osserva la scena poco lontana, poi si gira guardando nella  Mdp.

 

                              Ziarella: E’ nu guagliune. Si chiamava  Santinu.  Avìa  deci   anni e  s’astate ha  pigliatu  a  malaria  quannu  ja  a pascere  ‘a  mandra  d’u barone ‘ntri pantani  vicinu  aru  mare. Avìa sempre friddu  ed  era  diventatu  giallu cumu na jnestra  .

 

               (E’ un ragazzo. Si chiamava  Santino. Aveva dieci anni e questa estate ha preso la  malaria  quando andava  a pascolare la mandria del barone nei pantani vicino al mare. Aveva sempre freddo ed era diventato giallo come una ginestra).

 

“Ziarella” guarda le donne che continuano a coprire con le pietre il corpo del giovane,  quindi si rivolge nuovamente alla Mdp.

 

               Ziarella: Guardatile, nun  tenanu  mancu ‘a  forza  di  ciancere  picchì sù abituate ara  morte. Ccà  supra  ‘a  spianata  venimu  ogne  juornu  e avimu de  fare  ‘mpressa a  vuorvicare   i muorti,  picchì  c’è  troppu  puzza.

 

(Guardatele, non hanno nemmeno la forza  di  piangere  perché sono abituate alla morte. Qui sulla  spianata  veniamo ogni giorno e dobbiamo fare in fretta a seppellire i morti perché c’è  troppa  puzza).

 

“Ziarella” guarda i corvi.

 

 Ziarella: A ttena cumpagnia  ari  muorti  rimananu  i  cuorvi  nivuri.  St’annu su  belli  grassi. Si  vida  ca  ni  tenanu   e  mangiare!

          (A tenere compagnia ai  morti rimangono i corvi neri. Quest’anno sono belli grassi. Si vede che  ne hanno da mangiare!).

 

Alcuni corvi volano da destra verso sinistra e si posano sulla torre del forte.

 

Ziarella: Vulanu sempre da destra a manca e vole dire ca n’aspettanu guai!

                         (Volano sempre da destra a sinistra e  vuol dire che ci aspettano guai!).

 

Le donne finiscono di seppellire alla meglio la salma e si dispongono a circolo intorno al tumulo. ‘Ntonietta con un masso,  conficca  nel  terreno una croce di legno. Il sole sta calando sul mare  e  le donne sembrano delle ombre.

 

 

 

SCENA 69. Esterno notte. Accampamento napoleonico

 

Il chiarore della luna illumina il campo francese. Dovunque si vedono  tende, baracche e carri. I soldati sono quasi tutti intorno ai fuochi per riscaldarsi e asciugare i vestiti. Al centro dell’accampamento i cuochi del battaglione stanno arrostendo carne di vacca. I soldati mangiano e bevono vino in allegria.

Il sergente  Christophe Monnet e due granatieri francesi, De Rougé e  Dubois, si sono sfilati  i  lunghi  stivali di cuoio e  si  asciugano i  piedi  davanti  al  fuoco.

 

                    Sergente MonnetNous savons que dans la  forteresse  tout  ne va  pas pour le mieux. En tant que chrétien, je comprends  la douleur des assiégés et j’admire leur courage, mais nous sommes soldats et notre métier est celui de combattre et d’anéantir l’ennemi.

 

 (Sappiamo che nella fortezza non se la passano bene. Come cristiano comprendo il  dolore degli assediati e ammiro il loro coraggio, ma noi siamo soldati e il nostro mestiere è quello di combattere e annientare il nemico).

 

Interviene il suo amico De Rougé.

 

             Soldato De Rougé:   Enfin, sous ces  murs, nous nous reposons. Cela fait une an  que mon bataillon se déplace d’un entroit à l’autre des Calabres pour réprimer les révoltés. C’est une guerre sans chevaux, sans canons ni tambours. Nos ennemis n’ont ni grades ni uniformes et ils ne s’ alignent pas en carré pour combattre. Nous devons chasser les brigands, mais presque toujours ce sont eux les chasseurs et nous les proies. On va  les cherchés loin et ils sont  juste à côuté,  nous ne  réussissons  pas à les apercevoir eux,  ils nous voient. Comme ils connaissent les lieux, eux nous échappent toujours, mais nous ne leurs échappons jamais.

 

            (Sotto queste mura  ci stiamo finalmente riposando. Per quasi un anno il mio battaglione si è spostato da una parte all’altra delle Calabrie per reprimere i ribelli. E’ una guerra senza cavalli, cannoni e tamburi. I nostri nemici  non hanno gradi e uniformi  e non si schierano in quadrato per combattere. Noi dobbiamo cacciare i briganti, ma quasi sempre i  cacciatori sono loro e noi le prede.  Li cerchiamo lontani  e  sono vicini, non riusciamo mai a scorgerli ma loro  ci vedono. Per la conoscenza dei luoghi ci sfuggono sempre, ma noi non sfuggiamo mai a loro).

 

Aggiunge Monnet guardando prima De Rougé e poi la Mdp.

 

           Sergente Monnet:   Ce ne sont  pas les brigands qui nous  déciment  mais le  typhus, la dysenterie  et  surtout la malaria. Cet été,  dans les landes désolées  et malsaines de cette maudite province, nous avons respiré les miasmes des marécages  et nous  sommes tombés  malad. À Cosenza  j’ai vu des  églises , des hôpitaux  et des  couvents pleins de soldats frappés par des fièvres  intermittentes. Un colonel médecin  m’a dit que l’on  en comptait  plus deux mille  et les cadavres  étaient entassés et ensevelis  dans les églises. Un jour, pour se débarrasser  de nos pauvres camarades morts ils les ont brûlés dans les églises de Santa Maria degli Angeli et de l’Annunciata.

 

               (Non sono i briganti che ci stanno decimando ma il tifo, la dissenteria e soprattutto la malaria. Questa estate nelle lande desolate e malsane di questa maledetta provincia abbiamo respirato i miasmi palustri e ci siamo ammalati.  A Cosenza ho visto chiese, ospedali e conventi pieni di soldati colpiti dalle febbri intermittenti. Un colonnello medico mi ha detto che se ne contavano più di duemila e i cadaveri venivano ammucchiati insepolti nelle chiese. Un giorno per disfarsi  dei nostri poveri compagni morti li hanno bruciati dentro le chiese di Santa Maria degli Angeli  e  dell’Annunciata).    

 

 

 

 

Il soldato De Rougé scuote la testa e sorride.

 

 

 Soldato De Rougé: Oui, je me souviens que dans la population  s’est répandue  la rumeur  selon laquelle leurs ombres surgssaient  des flammes sous les traits de  diables et hurlaient : expiation !

(Sì,  ricordo che nella popolazione si era  sparsa la voce che le loro ombre sorgessero dalle fiamme sotto le sembianze di diavoli e gridassero: espiazione!).

 

 

SCENA 70. Esterno notte. Amantea. Garitta bastione

“Malanima” e i suoi amici, avvolti in pesanti mantelli neri,  arrivano alla garitta del bastione e danno il cambio di guardia ai loro compagni.

 

 

SCENA 71. Esterno notte. Accampamento napoleonico

 

Il  soldato Dubois parla con tono serio guardando nella Mdp.

 

           Soldato Dubois:  Pour dire  la vérité, de notre côté aussi  les choses ne vont pas pour le mieux. Vêtus  désormais comme des gueux,  nous n’avons plus à manger et nous ne recevons plus notre paye depuis plusieurs  mois. Aujourd’hui enfin on a mangé de la viande parce qu’on a  abattu quelques vaches réquisitionnées aux rebelles, mais il s’agit  d’un cas exceptionnel. Nos  officiers admettent que les caisses sont vide et on sait que Verdier ces derniers jours a dû avancer   cent quarante quatre ducats  de sa poche pour payer quelques civils. En août, Joseph Napoléon  a annoncé que les Calabres sont déclarées en  état de guerre et que les troupes sont à charge des pays en révolte. Mais le problème le plus grave, ce  sont justement  les réquisitions de  force.  Si cette terre n’est pas capable de donner de quoi vivre  à  ses habitants, comment  peut-elle nourrir en plus  des milliers de soldats? A mon avis les troubles dans  la province sont dûs principalement aux réquisitions forcées des denrées.

 

 

(Diciamo la verità, anche per noi le cose non vanno per il meglio.Vestiamo ormai come straccioni, abbiamo  poco da mangiare e non riceviamo paga da alcuni mesi. Oggi finalmente si è mangiata carne perché abbiamo macellato alcune vacche requisite ai ribelli, ma si tratta di un caso eccezionale.

               I nostri ufficiali  ammettono che le casse sono vuote e sappiamo che Verdier in questi giorni ha dovuto anticipare 140 ducati di tasca sua per pagare alcuni civili. Giuseppe Napoleone in agosto ha detto che le Calabrie sono dichiarate in stato di guerra e che le truppe sono a carico dei paesi in rivolta. Ma sono proprio le  requisizioni forzate il problema  più serio. Se questa  terra  non è capace di dare da vivere neanche ai suoi abitanti, come può sfamare anche migliaia e migliaia di soldati? I disordini della provincia a mio parere, sono dovuti principalmente alle requisizioni forzate  delle derrate).

 

Poco lontano dai tre, il sergente Dupont sale su un carro e si rivolge alla truppa parlando con la sua voce possente.

 

               Sergente Dupont: Chers amis, aujourd’hui c’est le premier jour de l’an. Dédions pour un moment notre pensée à  nos familles qui sont  loin  et à  nos compagnons qui  nous ont quittés.

(Cari amici, oggi è  Capodanno. Dedichiamo per un momento il nostro pensiero alle nostre famiglie lontane e ai nostri compagni che non ci sono più).

 

I soldati si alzano, si levano i cappelli e abbassano la testa in segno di rispetto. Ci sono anziani e giovanissimi, molti sono sbracati e scalzi e hanno cappotti e coperte sulle spalle. Il silenzio è rotto da un mormorio e un passa parola: “Il generale, c’è il generale”. Reynier, dritto e fiero sul  cavallo, sta compiendo un giro di perlustrazione nell’accampamento. Il sergente Dupont alza il cappello.

 

              Sergente Dupont: Soldats! Un salut à notre général Ebnezer Reynier !.

                                   (Soldati! Un  saluto al nostro generale Ebnezer Reynier!).

 

I soldati  gridano e agitano i cappelli per salutare il loro comandante che  risponde alzando la mano.

 

               SoldatiGloire au général!

                                        (Gloria al generale!).

 

Il sergente  Dupont  inizia  a cantare  la Marsigliese.

 

             Sergente Dupont:   Allons enfants de la Patrie,                                

                                              Le jour de gloire est arrivé!                               

                                              Contre nous de la tyrannie,                            

                                              L’étendard sangeant est levé, (bis)                  

                                              Entendez-vous dans les campagnes                  

                                              Mugir  ces féroces soldats?                             

                                              Ils viennent  jusque dans vos bras                     

                                              Egorger vos fils et vos compagnes!

         

(Avanti figli della patria,  il dì glorioso è arrivato. Contro  noi la tirannia,  lo stendardo cruento si levò! (bis) Sentite voi nelle campagne, feroci soldati gridar? verranno certo fino a qui,  a sgozzarvi i figli e le compagne).

 

 

Il generale Reynier si toglie il cappello e lo accosta al petto. I soldati cantano in coro il ritornello dell’inno.

 

                       Soldati  : Aux armes, citoyens!                                      

                                   Formez vos bataillons!                                    

                                   Marchons! marchons!                                   

                                   Qu’un sang impur                                           

                                   Abreuve nos sillons!

(All’armi cittadini ! Formate i battaglion ! Marciam, marciam, Un sangue impur I solchi bagna già!).

 

 

 

Berthelot e De Rougé,  piangono. I soldati ripetono il ritornello

 

                                  Soldati (Vfc) : Aux armes, citoyens!                                      

                                   Formez vos bataillons!                                    

                                    Marchons! marchons!                                   

                                   Qu’un sang impur                                            

                                    Abreuve nos sillons!

 

(All’armi cittadini ! Formate i battaglion ! Marciam, marciam, Un sangue impur, I solchi bagna già!).

 

 

 

SCENA 72. Esterno notte. Amantea. Garitta bastione

 

“Malanima” e i suoi compagni guardano verso il campo francese e ascoltano la “Marsigliese”.

 

      Sergente Dupont (v.f.c.):  Amour sacré de la Patrie,                                    

                                              Conduis, soutiens nos bras vengeurs!                        

                                                 Liberté, Liberté chérie,

                                                 Combats avec à tes défenseurs!

                                                 (repeat).

                                                 Sous nos drapeaux, que la victoire

                                                  Accoure à tes mâles accents!

                                                 Que tes  ennemis expirants

                                                 Voient ton triomphe et notre gloire!

 

 

 

SCENA 73. Esterno notte. Amantea. Vicolo II

 

“Pisci rè” e  i suoi amici  camminano lungo il vicolo seguendo  “Rais” che ha in mano un lungo coltello e un tralcio di vite. Rosinella e Mariettina li vedono passare e sorridono.

 

 

SCENA 74. Esterno notte. Accampamento napoleonico

 

L’accampamento napoleonico che sta ai piedi della roccaforte  è pieno di luci. I soldati continuano a cantare  la Marsigliese.

 

                  Soldati (v.f.c): Aux armes, citoyens!

                                         Formez vos bataillons!

                                          Marchons! marchons!

                                         Qu’un sang impur

                                          Abreuve nos sillons!

 

 

SCENA 75. Esterno notte. Amantea. Garitta bastione

 

L’inno della Marsigliese  viene coperto da un vociare di bambini che salgono lungo le mura. “Malanima” e  i suoi amici si girano per guardare cosa sta accadendo. I  bambini  si avvicinano alla guardiola e “Malanima” si rivolge a “Pisci rè” sorridendo.

 

                                   Malanima: Pisci rè, u  sta’  mai  fermu. Chi n’è chissu?  Addue  ‘u  portati?

                                                          (Pisci rè, non stai mai fermo. Chi è quest’uomo? Dove lo portate?).

 

 

 

“Pisci rè” ha un’aria sorpresa.

 

Pisci rè:   Ma cumu? Nun  l’aviti  mai  vistu? E’ ‘Rais’, u  pazzu du paisi, chiru  ca  tena  nu   rimediu  ppe’ ugni male. Ha dittu  ca  ‘ccussì  cumu   rescia   a  tagliare curu  curtieddru  a  trumma  marina,  rescia  a  tagliare  li  gamme  ari  francisi.

(Ma come? Non lo avete mai visto? E’ ‘Rais’, il folle del nostro paese, quello che  ha  un  rimedio per ogni male. Ha detto  che  così come riesce a tagliare con il coltello la  tromba  marina, riuscirà  a  tagliare  le gambe ai  francesi).

 

Il bambino si rivolge a “Rais”.

 

             Pisci rèDai ‘Raìs’,  falli   vida   chiru  ca  sa  fare!

                                     (Dai ‘Rais’,  facci vedere quello che sai fare!).

 

 

“Rais”  tentenna per un momento  poi  fa dei saltelli girando su se stesso, quindi, guardando verso il campo dei francesi, comincia a roteare con maestria il coltello  pronunciando uno scongiuro e tagliando tre volte il tralcio di vite:

 

            Rais: Ohi! San Giorgio nun dormiri,

                    ca  c’è nu  dragu  da  punire. 

                     Fa cunitienti i cherubini

                     tagliannu a capu ari giacubbini!

                    Ohi! San Giorgio, dunate  da fare, ca  c’è gente

                    d’ammazzare.

                    ‘Mpizza a  panza   aru  francise  e ricogliati  ‘ntra  la                                                                             

                    chiesa!

(Oh! San Giorgio non dormire, perché c’è un drago  da punire. Fai contenti i cherubini tagliando la testa ai giacobini! Oh! San Giorgio, datti da fare, perché c’è gente d’ammazzare. Inflinza la pancia del francese e poi ritorna presto alla chiesa!).

 

 

SCENA 76. Esterno giorno. Amantea. Chiesa di Sant’Antonio

 

Il sergente dei voltigeurs, Gustave Charpentier, è  legato a una sedia. Ha la faccia tumefatta e la fronte  sporca di sangue. E’ circondato dal  Mele e dai suoi uomini che gli sputano in faccia e gli tirano calci. Accanto a lui c’è frate Michele che sembra voler dargli conforto, ma il soldato ha un’aria infastidita.

 

               Sergente Charpentier:   Moine, je ne veux  pas de  vos soins. Nous, français, nous connaissons et nous suivons la religion de Jésus Chist mais notre Die est différent du vôtre parce que  vous l’utilisez  contre votre  prochain, à des fins basses et iniques. Vous êtes instrument de la tyrannie et vous trahissez  l’évangile. En France, des prêtres comme vous,  nous les avons  retirés de l’oisivité  et  du  vice  et  nous  les  avons  obligés  à  travailler.

(Frate, non voglio le vostre cure. Noi francesi conosciamo e seguiamo la religione di Gesù,  ma il nostro  Cristo è diverso dal vostro perché voi l’adoperate contro il prossimo, per i vostri bassi e iniqui fini. Voi siete strumento della tirannide  e tradite  il Vangelo. I preti come voi in Francia  li abbiamo tolti dall’ozio e dal vizio e li abbiamo obbligati a lavorare).

 

Frate Michele guarda imbarazzato la gente che gli sta intorno.

 

                          Frate Michele Ha  detto che siamo  una  massa  di  ignoranti e di figli di puttana e che appena entreranno in paese  i francesi  ci metteranno tutti  alla forca.

 

Mele prende dalla tasca un coltello a serramanico, lo apre, si avvicina minacciosamente al soldato francese e grida.

 

 

 

                        Capo brigante Mele: Ppe’ stu   cane  francise  nun  vala  ‘a  pena   mancu  di  spennare  ‘na   paddra  ‘e  chiummu. Spostativi ca  ci mignu na curteddrata ‘ntra panza.

 

            (Per questo cane francese, non vale la pena nemmeno di sprecare una palla di piombo. Spostatevi che gli tiro una coltellata nella pancia).

 

L’uomo conficca  violentemente il coltello nella pancia del sergente.

 

SCENA 77. Esterno giorno. Amantea. Vicolo III

 

Due bambini con in mano dei fucili di legno spuntano dal vicolo camminando con  aria  furtiva. Uno di essi ha in testa un cappello che  ricorda  quello dei soldati napoleonici,  mentre l’altro quello dei  giacobini. Improvvisamente da un portone spuntano  tre bambini anch’essi armati di fucili di legno e con cappelli   alla  calabrese e  alla marinara. I tre, comandati da “Pisci rè”, puntano i fucili verso i nemici che si appoggiano al muro gettando a terra le armi e alzando le mani in segno di resa.  “Pisci rè” con tono perentorio si rivolge agli amici.

 

            Pisci rèSparatili ari cugliuni!

                                      (Sparategli ai testicoli!)

 

I bambini  simulano il rumore degli spari: “Bum, bum, bum”. I due prigionieri  cadono a  terra  e si toccano all’altezza dei genitali. “Pisci rè”,  mette il  piede sul petto di un  ferito e  parla con tono duro.

 

           Pisci rè: Giacubbinu  ricchiune, mo ti  tagliamu a  capu e  l’appicamu a  nu palu.

                                    (Giacobino  ricchione, ora ti tagliamo la  testa e l’appendiamo a un  palo).

    

Guarda quindi l’altro ferito.

 

 Pisci rè:   Francise  curnutu,  a  tìa  ’mbece  ti  ficcamu  ‘u  curtieddru  ‘ntra  panza,  ti  jettamu  a  mare  e  ti  facimu  mangiare  di  li  pisci.

(Francese cornuto,  a  te invece  ti ficchiamo il  coltello nella pancia, ti buttiamo a mare ti facciamo mangiare dai  pesci).

 

 

SCENA 78. Esterno giorno. Amantea. Forte

 

Sul forte  sventola la  bandiera borbonica.

 

 

SCENA 79. Interno giorno. Sala d’arme

 

Il tenente colonnello Mirabelli e l’aiutante Stocco  sono seduti dietro un tavolo e consultano delle mappe. L’aiutante  alza lo sguardo verso la Mdp.

 

Aiutante Stocco: Sì, alcuni prigionieri sono stati pugnalati e decapitati dai nostri, ma questa non è una guerra come le altre. La gente non  combatte   per sete di onori o di conquiste, ma  per il  diritto di avere la propria  fede, di vivere  come i loro padri, di pregare come ha sempre fatto, di non essere governata da persone che non parlano  la sua lingua. Qui non c’è una guerra ma una insurrezione. Non sono stati i  nobili e i preti a radunare il popolino, ma è stato il  popolino a  radunare i nobili e i preti.

 

Il tenente colonnello Mirabelli riavvolge le carte.

 

                  Tenente colonnello Mirabelli:  Quello che dice l’aiutante è vero, ma non tutti quelli che  difendono queste mura sono animati da ideali nobili.  Accanto  alla gente onesta, mossa dall’amore per il nostro amato sovrano, c’è un gran numero  di brutta  gente e di scaltri avventurieri assetati di sangue e di vendette.

 

Il comandante guarda il suo aiutante.

 

Tenente colonnello Mirabelli: Stocco, i briganti non sono certo apparsi nelle nostre contrade perché sono arrivati i francesi, ci sono sempre stati e sempre ci saranno.

 

L’aiutante Stocco gli risponde.

 

           Aiutante Stocco: Comandante, anch’io  nutro disprezzo per questa gente. So benissimo che  il loro unico scopo è quello di far sapere alla regina Carolina che sono zelanti, in modo da  avere in cambio  soldi e favori durante e a guerra finita, ma  noi  abbiamo l’ordine di arruolare chiunque vuole combattere contro i francesi.

 

             Stocco guarda nella Mdp.

 

Aiutante Stocco: Sono uomini destri nel maneggio delle armi, di provato coraggio, di tenace resistenza,  spietati e audaci nei combattimenti e quindi dobbiamo chiudere un occhio sulle loro nefandezze.

 

 

SCENA 80. Esterno giorno. Amantea.  Piazza piccola

 

Perciavalle sta uscendo di casa e cammina diritto nascondendosi il viso con la mano. Parla con tono molto seccato.

 

Perciavalle: Non voglio parlare!  Ve l’ho già detto!  Non  voglio parlare!

 

 

 

 

SCENA 81. Interno  giorno. Refettorio militare

 

Alcuni briganti e popolani  stanno mangiando pane e lardo che tagliano con lunghi e affilati coltelli. Sul  tavolo  della mensa si vedono  fiaschi di vino e piatti pieni di formaggi, salame e arance. Un giovane, guardando nella Mdp,  si avvicina a  “Mele” e  lo indica con la mano.

 

             Brigante: E’ iddru ’u capu brigante  Mele, è  iddru.

                                                      (E’ lui il capo brigante Mele, è lui).

 

Mele smette di mangiare e parla in maniera ferma guardando nella Mdp.

 

            Capo brigante MeleSi, Mele sugnu iu.  E’ bberu,  aju   datu  ‘a  morte  ‘a  sudati francisi. ‘Aiu puru ammazzatu parecchi giuvinotti d’Amantia.  Nur’i   canuscia  pecchì  nun  sugnu  di  si  parti, ma m’annu  dittu  ca  eranu   spie   giacubbine.

            I  francisi  ni  chiamano briganti, ma  su  nume  un  si  dà  a   chini  duna  a  vita  ppe’  difennare  ‘a  terra  addue  è natu.

 

(Si, Mele sono io. E’ vero, ho dato la morte a dei soldati francesi. Ho anche ucciso diversi giovani d’Amantea. Non li conoscevo    perché  non sono di queste parti, ma mi hanno detto che  erano spie   giacobine. I  francesi ci  chiamano briganti, ma questo nome non si dà  a  chi dà la vita per  difendere la terra dove è nato).

 

 

Interviene “Sgangatu”, un  anziano brigante senza denti.

 

Sgangatu:  A’ nostra è ‘na guerra giusta.  Sta  succediennu chiru ca  è successu  si’anni arrieti curu cardinale Ruffu.  Mentra  i  generali di  Firdinandu  erano  fujuti  ara  Sicilia, nua  simu partuti da’  Calabria e ‘amu  liberatu ‘u  regnu  d’i giacubbini. Iu  c’era ‘ntra  spedizione. Chi belle  jurnate amu  passatu!

 Me ricuordu  ca quannu trasiamu  ‘ntra  li  paisi  c’eranu  prucessioni, botte e luminere. A gente ni  facia  truvare vino e robba de mangiare  e caminavamu  sempre  ‘ntra  cuncierti  di  zampugne, chitarre, viole e tammurini. Mi  parìa  d’esse  a ‘na  festa  cchiù  ca  ‘a  ‘na  guerra.

(La nostra è una guerra giusta. Sta succedendo quello che è successo sei anni fa con quel santo del cardinale Ruffo. Mentre i generali di Ferdinando erano scappati in Sicilia, noi siamo partiti dalla Calabria e abbiamo liberato il regno dai giacobini. Io ho partecipato alla  spedizione. Che belle giornate abbiamo passato! Ricordo che quando entravamo nei  paesi  c’erano processioni, spari e luminarie. La gente ci faceva trovare vino e roba da mangiare  e camminavamo sempre tra concerti di  zampogne, chitarre e viole e tamburelli. Mi sembrava di partecipare  ad una festa  più che ad  una guerra).

 

“Gal gal”  interviene  un po’ seccato guardando nella Mdp.

 

Gal gal: Sgangatu cunta  sempre ‘u  fattu  de Ruffo, ma ‘i cose sù cangiate. Ca’ nun  simu  nua  ad  attaccare i  francisi, ma sù  i francisi ca attaccanu  a nua.  Io  sugno d’Amantia  e  nun  sugnu nu  massista o, cumu  dìcianu  i  giacubbini, nu  brigante, ma  nua giuvani du  paise   nunn’avimu  autra  via  ca  fare  a  guerra.  Si  n’arrennimu  i  francisi  n’appicanu  a  na  furca o, si tuttu  va  buonu,  ni   mannanu  a  mora  surdati  ‘ntra  paisi  luntani.

Nua   resistimu  sinu  ara  fine  picchì  nunn’avimu  autra  via di sarvamientu,  picchì  nunn’avimu  nente e  perdere.

(Sgangatu racconta sempre il fatto di Ruffo, ma le cose sono cambiate. Qui non siamo noi ad attaccare i francesi, ma sono i francesi che attaccano noi. Io sono di Amantea e non sono un massista o, come dicono i giacobini, un brigante, ma noi giovani del paese non abbiamo altra scelta che fare la guerra. Se ci arrendiamo i francesi ci appenderanno ad una  forca o, se tutto va bene, ci  mandano a morire soldati  in  paesi lontani.

Noi resisteremo fino alla  fine perché non abbiamo altra via d’uscita, perché non abbiamo niente da  perdere).

 

 

 

SCENA 82. Esterno notte. Accampamento napoleonico

 

L’accampamento francese è posto sulla collina di fronte al forte e i soldati stanno consumando il rancio. Mangiano pane, brodo di cavoli e carne bollita. Poco lontano altri militari aspettano davanti un carrozzone con  una finestra e una scaletta. Si  apre la porta del carro ed esce un soldato che si aggiusta con difficoltà le brache. Uno dei suoi compagni, De Drouet,  ride.

 

           De Drouet: François, tu  a été  rapide comme un l’éclair!

                                       (François, sei stato veloce come un fulmine!).

 

François  sorride un po’ imbarazzato. Dietro di lui si affaccia una donna con i capelli biondi e due nei sulle guance. Ha una camicetta bianca scollata da cui sporgono grandi  seni.

 

             Prostituta: Excellentissimes soldats, encore deux et je ferme la boutique.Je suis fatiguée    

                                et je dois me reposer.

                       (Eccellentissimi soldati, altri due e poi chiudo bottega. Sono stanca e devo riposarmi).

 

I soldati accennano ad una protesta, ma la donna li fa tacere con  tono deciso.

 

           Prostituta: Notez sur un morceau de papier.  On se voit demain soir à la même heure.

                             (Segnatevi su un pezzo di carta. Ci vediamo domani sera sempre alla stessa ora).

 

Poco lontano il medico Guibinet è seduto insieme al colonnello della gendarmeria Amato e al tenente della gendarmeria Gaspare Cozza.

 

Medico Guibinet Je dois contrôler que  les soldats respectent les précautions afin de  ne pas contracter de maladies vénériennes, mais c’est un travail difficil dans un lieu où  on meurt facilement. Nous avons appris su qu’aujourd’hui quelques-uns de nos soldats, restés prisonniers, ont été poignardé. Les révoltés enfermés dans la forteresse sont des sauvages pires que ceux  que nous avons connus en Égypte. Ils égorgent les hommes comme s’il s’agissait  de  porcs et de temps en temps ils les découpent  en morceaux.

(Come medico dovrei controllare  se i soldati rispettano le precauzioni per non contrarre malattie veneree,  ma  è un lavoro difficile in  un  luogo dove si muore con facilità.. Abbiamo saputo che  oggi alcuni  nostri soldati rimasti prigionieri  sono stati pugnalati. I ribelli chiusi nella roccaforte  sono dei selvaggi peggiori di quelli che  abbiamo  conosciuto in  Egitto. Scannano gli uomini come se fossero maiali e a volte li fanno a pezzi e se li mangiano). 

 

Il medico si ferma, guarda il colonnello Amato e riprende a parlare con tono riflessivo.

 

Medico Guibinet: Nous aussi, ces derniers, nous n’avons pas fait dans la dentelle. Sous les drapeaux de Reynier il n’y a pas seulement les vétérans de Marengo ou d’Austerlitz, mais des mercenaires aventuriers et déserteurs de toutes races : ces soldats sont indisciplinés et turbulents, toujours prêts à protester et à  désobéir et, si c’est  nécessaire à  déserter. Il y a plusieurs mois de cela, une compagnie de  suisses et de polonais encadrès dans un régiment de grenadiers, ont tiré sur leurs officiers  et se sont remis aux anglais. Ces gens se sont ensôlés parce qu’ils y ont été  contraints par  la force ou bien par avidité. Pour ces gens la seule raison de se battre c’est le pillage. À  eux  il n’importe rien de la France ni de la révolution).

 

(Certo anche  noi in  questi mesi non  siamo  andati  troppo  per il sottile. Sotto le bandiere di Reynier non ci sono solo i veterani di Marengo o di Austerlitz, ma mercenari, avventurieri e disertori di ogni razza. Questi soldati sono indisciplinati e turbolenti, sempre pronti a protestare e disobbedire e, se è necessario, disertare. Mesi fa’ una compagnia di soldati svizzeri e polacchi, inquadrati in un reggimento di granatieri,  ha sparato sui  loro ufficiali e poi  si sono consegnati agli inglesi. Queste persone si sono arruolate perché costrette con la forza o per fama. Per questa gente la sola ragione di battersi  è il saccheggio. A loro non importa niente della Francia  e della rivoluzione).

 

Il colonnello Amato annuisce.

 

            Colonnello Amato Guibinet dice il vero. Una guerra non vede mai buoni da una parte e cattivi dall’altra. Ci sono differenze anche tra gli stessi schieramenti. Un conto, ad esempio, sono i giacobini, un conto i napoleonici, un conto i massisti, un conto i briganti. Io sono d’Amantea e sono un colonnello della gendarmeria francese. Mi addolora combattere contro i compaesani,  ma i capi  che stanno a difesa della rocca sono canaglie che vivevano alla macchia per rubare e uccidere. Quella gente, come ormai ammettono gli stessi borboni, è diventata padrona  di Amantea e terrorizza  la popolazione.  Ci hanno detto che la sera si riuniscono nelle cantine, si ubriacano con acquavite,  entrano nelle case e compiono  ogni genere di nefandezze.

 

Interviene  il tenente Cozza guardando nella Mdp.

 

            Tnente Cozza: Anch’io sono di Amantea e sono onorato di combattere sotto le insegne di Napoleone Bonaparte. I francesi combattono in tutta Europa per costruire delle società  giuste e al passo con la storia. Il 2 agosto di quest’anno  hanno  promulgato  una legge  con cui hanno abolito senza alcuno  indennizzo tutti i diritti feudali dei baroni. Qua i poveracci pagavano una tassa pure per raccogliere la neve! Questa e altre leggi  spazzeranno via  per sempre i  privilegi secolari dell’aristocrazia e del clero  che  hanno avvilito e mortificato le nostre terre. La gente un giorno capirà.  Io non mi sento un traditore ma un rivoluzionario.

 

 

SCENA 83. Esterno giorno. Mare

Una corvetta inglese,  ancorata nella rada, spara colpi di cannone contro il presidio francese sulla spiaggia.

 

 

SCENA 84. Esterno giorno. Mura di cinta

Gli assediati  sulle mura  sventolano  bandiere  borboniche.

 

 

SCENA 85. Esterno giorno.  Amantea. Spiaggia

Le palle di cannone sparate dalla corvetta cadono in acqua. I francesi sono al riparo nelle trincee scavate sulla spiaggia.

 

 

SCENA 86. Esterno giorno. Collina

Gli artiglieri francesi sparano  in direzione della corvetta inglese, ma le palle di cannone vanno a finire in mare.

 

 

SCENA 87. Esterno giorno. Corvetta inglese

Sul ponte della nave l’ufficiale inglese Jackson osserva con  un cannocchiale la spiaggia e la roccaforte.

 

Ufficiale SmithWe cannot approach the coast because the French artillery will tear us to pieces.  Our task on the other hand is not to engage in battle, but to patrol this stretch of sea and sight any kind of French navy.

                    We are here to defend first and foremost the interests of our country which Napoleon wants to destroy with the continental block.  It is our duty to stop this despotic man.  He plants trees of freedom, but in reality he wants to conquer the world.  We do not accept lessons of democracy from the French since we founded it before them.  We built it with patience, they created it hastily.  Napoleon’s imperial eagles however have nothing to do with freedom.  

 

(Non possiamo avvicinarci alla costa perché l’artiglieria francese ci farebbe a pezzi. Il nostro compito del resto non è quello di ingaggiare battaglie, ma pattugliare questo tratto di mare e intercettare ogni tipo di naviglio francese. 

             Noi siamo qui per difendere prima di ogni cosa gli interessi della nostra patria che Napoleone vuole annientare con il blocco continentale. Noi abbiamo il dovere di fermare quest’uomo dispotico. Fa piantare gli alberi della libertà,  ma in realtà  vuole conquistare il mondo. Noi non accettiamo dai francesi lezioni di democrazia poiché l’abbiamo fondata  prima di loro. Noi l’abbiamo costruita con pazienza, loro l’hanno voluta  fare in fretta.  Le aquile imperiali di Napoleone non hanno però niente a che  vedere con la  libertà).

 

 

SCENA 88. Esterno giorno. Mare

La corvetta inglese si allontana fino a scomparire all’orizzonte.

 

 

SCENA 89. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta

Gli assediati sono delusi e amareggiati e qualcuno  inveisce contro i marinai inglesi. “Gruoncu”,  si rivolge  a  “Malerva”.

 

            GruonguSinni  vannu  vigliacchi. Sinni vannu.

                                           (Se ne vanno vigliacchi. Se ne vanno)

 

Malerva grida arrabbiata verso la nave.

 

             Malerva: Ma  jati  a  fare in  culo  ‘nglesi  di merda!

                                             (Ma andate a fare in culo inglesi di merda!).

 

 

 

 

 

SCENA 92. Interno giorno. Sala d’arme

 

Il tenente colonnello Mirabelli,  seduto dietro un tavolo, sta parlando con “Sona sona”, un giovane del paese che ha il berretto in mano e l’aspetto dimesso. L’aiutante Stocco  ascolta la discussione.

 

          Tenente colonnello Mirabelli: Io non credo alla storia che mi hai raccontato. Quando il pastore non vuole portare la mandria al pascolo dice che ha smarrito il bastone. Per gente come voi ogni scusa  è buona per non combattere, ma dovete mettervi in testa che qui ad Amantea  l’unico modo per guadagnare  soldi e  mangiare è fare la guerra.

 

           Sona sona: Cummannante, vi haiu dittu ‘a pura verità. Vu lu giuru supra Madonna  santissima  e  supra  sant’Antonio misericordiusu.

           (Comandante, vi ho detto la pura verità. Ve lo giuro sulla Madonna Santissima e su sant’Antonio misericordioso).

 

L’aiutante Stocco si avvicina al giovane, lo prende in maniera decisa per un braccio e lo accompagna verso le scale.

 

          Aiutante StoccoSi, la  Madonna e sant’Antonio. Vattene via, sei un  vigliacco!

 

 

SCENA 91.  Interno giorno. Forte. Scale

 

“Sona sona” mentre scende le scale si gira, si assicura di non essere visto da nessuno e fa le corna.

 

 

 

 

SCENA 92. Interno giorno. Sala d’arme

 

Il tenente colonnello Mirabelli  apre un libro contabile.

 

Tenente colonnello Mirabelli:  I soldi nelle guerre sono più importanti delle armi. Ai  popolani che hanno liberato il paese dal presidio francese, il re ha distribuito una  ricompensa di dodici carlini. A chi combatte nel nostro esercito diamo da mangiare  e un salario che varia a seconda dei  gradi. Un comandante di un battaglione volante prende 10 carlini mentre un volontario 25 grani. Il denaro  ce l’abbiamo perché ce lo mandano dalla Sicilia,  quello che manca sono le munizioni e le armi.  Ci vorrebbero  cannoni di  ferro con tiri a palla  per sistemarli sui bastioni e soprattutto a  mitraglia  per metterli a difesa delle porte.  Abbiamo bisogno  di verghe di piombo, rotoli di polvere, pietre focaie e cartucce di ogni calibro. 

               Aspettiamo da  un momento all’altro uno sbarco degli inglesi. Le navi appaiono spesso nella rada,  ma  non si avvicinano perché hanno paura di essere affondate dai colpi dell’artiglieria francese.

 

Interviene l’aiutante Stocco.

 

Aiutante Stocco: Colonnello, io, e credo noi tutti, spesso mi faccio  delle domande. ‘Ma  dove sono andati a finire i seimila soldati inglesi del generale Stuart che a luglio hanno sconfitto i battaglioni  del generale Reynier? Come mai l’ammiraglio Viguna, nonostante gli ordini di Re Ferdinando,  non è mai sbarcato sulla spiaggia di Amantea né per fare delle sortite né per farci avere rifornimenti?  I briganti e i popolani da tempo sono delusi e ormai accusano apertamente i comandanti  del nostro esercito di essere dei vigliacchi o addirittura  dei  traditori.

 

Il tenente colonnello Mirabelli non sa che dire.

 

 

SCENA 93. Esterno notte. Amantea. Porta sud

Gli artiglieri francesi fanno fuoco con i loro cannoni.

 

 

SCENA 94. Esterno notte.  Amantea. Forte

Le palle di cannone frantumano  il forte dove sventola la bandiera borbonica.

 

 

SCENA 95. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta

Gli assediati si stanno preparando per la difesa. Sulle mura c’è  un agitarsi di uomini, un guizzare di lanterne,  un tramestio di voci, un calpestio di passi e un rumore d’armi.

 

 

SCENA 96. Esterno notte. Amantea. Vicolo I

Da lontano  riecheggiano le voci e  i  rumori che vengono dalle mura. Un banditore  cammina per il vicolo deserto, si ferma e suona la  trombetta di ottone.

 

              Banditore: Svegliativi! Svegliativi! I francisi! I francisi!

                                             (Svegliatevi! Svegliatevi! I francesi! I francesi!).

 

Si sente lo stridere delle chiavi che girano nella toppe e il cigolio di porte che si aprono. Una  donna si affaccia da una finestra.

 

             Popolana: E addue  sunnu?

                                         (E dove sono?).

 

             Banditore: Sutta  ‘u  bastione  du  Parapuorto!

                                                   (Sotto il  bastione  del Paraporto!).

 

Si affacciano altre donne dalle finestre e nel  vicolo c’è una  ridda  di  voci.

 

 

SCENA 97. Interno notte. Studio

Perciavalle  sta  spiando dalla finestra.

 

 

SCENA 98. Esterno notte. Amantea. Piazza piccola

Il banditore   al centro della piazza suona con forza la trombetta.

 

 

SCENA 101. Esterno notte. Amantea. Porta sud

Un  trombettiere  francese  suona  la tromba. I soldati  si schierano a scacchiera e alcuni si passano  bottiglie di  acquavite per darsi coraggio prima della battaglia.

 

 

 

SCENA 100. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta
Squadre di  armati  si muovono da una parte all’altra delle mura. Gli uomini di “Malanima”, appostati con i  fucili tra i merli della fortezza, si passano un fiasco di vino.

 

 

SCENA 101.  Esterno notte. Amantea. Porta sud

L’ufficiale Berthelot  sguaina la sciabola e grida.

 

            Ufficiale Berthelot: Feu!.

                                                         (Fuoco!).

 

I fucilieri in tripla fila scaricano i moschetti e si vede una densa nuvola di fumo, poi innestano la baionetta e vanno all’assalto in ordine sparso. Diversi soldati corrono verso la rocca con lunghe scale e le appoggiano alle mura.
 

 

SCENA 102. Esterno notte. Amantea. Bastione porta sud.
Gli assediati sparano con i moschetti  e  i lampi delle fucilate rischiarano il buio della notte.

 

 

SCENA 103. Interno notte. Amantea. Palazzo porta sud

Due popolani fanno fuoco  da un balcone  ma al  più giovane cade il fucile dalle mani per il forte rinculo. Tre donne, tra cui Rachela, caricano i moschetti.  Armano il cane a mezza monta, strappano con i denti l’estremità della cartuccia, versano un po’ di polvere nel bacinetto dell’acciarino, poggiano a terra il calcio del fucile e versano il resto della polvere, introducono la palla ancora avvolta nella carta e spingono in fondo con la bacchetta.

 

 

SCENA 104. Esterno notte. Amantea. Mura porta sud

Un gruppo di popolane, tra cui “Malerba”, portano calderoni pieni d’acqua bollente.

 

SCENA 105. Esterno notte. Amantea. Porta sud

La battaglia infuria e  nell’aria risuonano  urla e fucilate. I soldati francesi del genio poggiano  le scale lungo le mura, ma le donne  buttano loro addosso acqua bollente, pietre e tizzoni ardenti. Altre popolane con lunghe pertiche spingono una scala facendo precipitare i soldati che sono sui pioli. Un granatiere francese carica il suo fucile, prende la mira e spara. Si vede una fiammata e una fumata.

 

 

SCENA 106. Esterno notte. Amantea. Mura porta sud

Una fanciulla, colpita al petto, si accascia sulle mura.

 
 
SCENA 107. Esterno notte. Amantea. Porta sud
La battaglia infuria e si sentono scoppi, urla e ordini. Alcuni soldati francesi,  tra cui il comandante Berthelot, vengono colpiti. Mentre  viene  portato su  una barella l’ufficiale si lamenta e  parla col  medico Guibinet.

 

Ufficiale Berthelot: Calabrais bâtards! Ces attaques ne servent à rien.

                                 Informez en  tout de suite le général !

                                    (Calabresi bastardi! Questi attacchi non servono a  niente.
                                                      Informate subito il  generale).

 

Un giovane trombettiere francese segnala ai suoi la ritirata. Gli assediati esultano sulle mura.

 

 

SCENA 108. Esterno Giorno. Fiumara

 

Piove a dirotto. Alcuni zappatori dell’esercito francese  hanno finito di scavare una grande fossa vicino al letto del fiume. Altri soldati portano i  loro compagni morti su delle barelle. Li adagiano sul terreno uno vicino all’altro e vi stendono sopra una bandiera tricolore.  Due soldati suonano i tamburi e una compagnia di voltigeurs scarica i fucili in aria. Gli zappatori ricoprono le salme con le pale mentre gli altri guardano con le lacrime agli occhi.

 

 

 

SCENA 109. Esterno giorno. Amantea. Vicolo II

Piove e l’acqua scorre lungo il vicolo dove c’è un cane  macilento morto. 

 

 

 

SCENA 110. Esterno giorno. Amantea. Vicolo VI

Davanti casa di “Aluzza ninna” piove.

 

 

 

SCENA 111. Interno giorno. Casa

La stanza è misera e sporca e  in un angolo sono ammassati reti, ancore e attrezzi da pesca. Un bambino sta facendo cacca seduto su un pitale proteggendosi dal freddo con una coperta sulle spalle. “Aluzza ninna”, seduto con un cappotto sulle gambe davanti al camino spento,  guarda  prima il nipote e  poi nella macchina Mdp.

 

Aluzza ninna: E’ cchiu  di  n’ura  ca  niputima   sta  sedutu  supra  ‘u pisciaturu, ma  cchi  po’ cacare  si  nun  mangia ‘nente?  Sì, stamu  resistiennu, ma fin’a  quannu? I  capi dìcianu de stare tranquilli  picchì  di  nu  mumentu  all’autru   venanu  l’ingrisi,   ma  sù  cchiu  buci  ca  nuci.  Ugne  tantu  supra  ‘u  mare  si  vidanu  arrivare  varche   ‘ngresi  e  siciliane.  Nua  currimu  ari  mura  e  cuminciamu  a  fare signu  e a n’abbrazzare. Li  navi  sparanu ‘ncuna  cannunata  e  sinni  vannu.

(E’ più di un’ora  che  mio nipote  sta seduto sul pitale, ma che cosa può cacare se non mangia  niente? Sì,  stiamo resistendo, ma fino a quando? I capi dicono di stare tranquilli  perché da un momento all’altro verranno gli inglesi,   ma sono più  voci che noci.  Ogni tanto sul mare si vedono arrivare  navi  inglesi e siciliane.  Noi  corriamo sulle mura e cominciamo a fare dei segnali e ad abbracciarci. Le navi sparano qualche colpo di cannone e  se ne vanno).

 

Il vecchio guarda nuovamente il nipote e si gratta il capo.

 

Aluzza ninna: Io  piensu  ca  lu  pieju  ancora  ‘a  di  venire, ca  priestu vena l’ura  ca  nuddru  po’  fujere  aru  destinu sua. Sonata ch’è  ra campana,  povera  ‘a  piecura  c’addi  dare  ‘a  lana.

(Io  penso che il  peggio deve ancora  venire, che presto verrà l’ora  in cui nessuno può sfuggire al  proprio destino. Suonata che è la campana, povera  la  pecora  che deve dare la  lana).

 

 

SCENA 112. Interno Notte. Sala da the

La  nobildonna Laura prende il the seduta sulla poltrona della lussuosa abitazione. In un vassoio ci sono dei biscotti e vicino una bottiglia di rosolio con alcuni  bicchierini. Alle sue spalle c’è un camino dove ardono grandi ceppi di legna. Fuori si sentono colpi di cannone,  sibili di palle e fragori. La donna parla guardando nella Mdp mentre sorseggia il the.

 

Nobildonna Laura: La mia famiglia, i miei servi e i miei contadini stanno combattendo per difendere Amantea. Io stessa sono andata sulle mura del Paraporto per rotolare sassi, gettare acqua bollente, caricare i fucili e curare i feriti. Quando c’è bisogno di difendere il sovrano gli aristocratici devono stare fianco a  fianco della  plebe.

Il 23 marzo del ‘99 abbiamo preso l’infame albero della libertà piantato dai giacobini e lo abbiamo scaraventato dalle mura. Abbiamo promosso una felicissima controrivoluzione e abbiamo celebrato un Te Deum per ringraziare l’Altissimo Iddio dell’avvenuta  liberazione del regno.

Il popolo non si è fatto sorprendere dall’inganno e dalle promesse di quei  cittadini arricchiti e avidi  di  cariche che si fanno chiamare “patriotti”. La plebe  sa riconoscere i buoni e i cattivi. Noi nobili  siamo un tutt’uno con il popolo e consideriamo  re Ferdinando  nostro padre e la regina Carolina  nostra madre.

               Stiamo vivendo giornate tremende, i francesi ci hanno accerchiato con un poderoso esercito, ma con la  fede  e  la   volontà  si ottiene tutto.

 

La donna poggia la tazza di the sul tavolo e sorride.

 

Nobildonna Laura: I pescatori di una delle mie barche, ricordando una contesa  tra  una ciurma di Amantea e un’altra di Cefalù, spesso dicono: “Varca di  Cefalù  tantu  vantata, t’arriducisti a carriari mmerda! ‘A nostra, ca  è stata mazzupiata, pisci coglie e vene ventumata”.

(Barca di Cefalù tanto vantata, ti riducesti  a trasportare merda! La nostra, che è stata denigrata, raccoglie pesci e viene nominata).

 

 

SCENA 113. Esterno giorno. Mare

Sul mare si vede una corvetta inglese.

 

 

SCENA 114. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta

Gli assediati, affacciati dalle mura, guardano la nave con trepidazione. “Gal gal”, con un berretto rosso e mutandoni di lana ha legato ai fianchi una vescica di maiale. Finisce di cospargersi il corpo con grasso e stringe la mano al tenente colonnello Mirabelli che sorride perché si sporca.

 

Tenente colonnello Mirabelli: Gal Gal, la lettera è dentro la vescica, ma se  si dovesse bagnare  sai cosa dire agli inglesi.

 

Gal gal si congeda dal colonnello e,  aiutato dai compagni,  si cala con una fune dal bastione.

 

 

SCENA 115. Esterno giorno. Amantea. Spiaggia

I soldati francesi si accorgono di lui e sparano con i moschetti  per colpirlo.

 

 

SCENA 116. Esterno Giorno. Spiaggia

“Gal gal” arriva ai piedi delle mura  e corre  a perdifiato per raggiungere il mare. I soldati francesi continuano a sparare contro di lui.

 

 

SCENA 117. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta

Gli assediati  gridano  per incoraggiare  “Gal gal”.

 

 

SCENA 118. Esterno giorno. Spiaggia

“Gal gal” raggiunge la spiaggia, si fa il segno della croce  e si tuffa in mare. I francesi raggiungono anch’essi la spiaggia e cercano di colpirlo ogni volta che riemerge con il capo dalle onde.

 

 

SCENA 119. Esterno giorno. Mare

“Gal gal” nuota con forza nel  mare e  raggiunge faticosamente  la corvetta inglese.

 

 

SCENA 120. Esterno giorno. Corvetta inglese

“Gal gal” sale a bordo della nave inglese, trema visibilmente e i marinai gli mettono una coperta sulle spalle e gli offrono una bottiglia di rum. Stacca la vescica, la rompe con i denti e consegna la lettera che c’è dentro ad un tenente Gal gal  parla  con  difficoltà  al capitano di corvetta.

 

             Gal galGinirale, mi chiamanu  Gal gal  e  sugnu  venutu  ‘a   vi dire ‘ppe cuntu  d’u  nuostru comandante  ca  nun  ci ‘a   facimu  cchiù  a  resistere alli  francisi. Ppe’ cumbattere ci vonnu  core e curaggiu, ma puru sciabule, fucili, pistole e cannuni.  N’aviti d’aiutare, simu  senza mangiare  e su tanti juorni ch’è cuminciata  a   scarsìare  puru  l’acqua. Simu  stanchi picchì  nun riposamu cchiù da  troppo tiempu. Cu li francisi  amu  fattu  na  tregua di  dieci  juorni,  ma pua  l’amu  di  rapire  le  porte de  la  rocca. I nimici su cchiù stanchi di nua,  sbarcati  e stringimuli   ‘ntra  na  morsa.

 

(Ginirale, mi chiamano Gal gal e sono venuto a dirvi per conto del nostro comandante  Mirabelli che  non ce la  facciamo più a reggere i francesi. Per combattere ci vogliono  cuore e coraggio  ma anche sciabole, fucili, pistole e cannoni. Ci dovete aiutare, siamo senza cibo e da  giorni è  cominciata a scarseggiare anche l’acqua. Siamo stanchi  perché  non riposiamo più da troppo tempo. Con i francesi abbiamo concordato una tregua  di dieci giorni e poi dobbiamo aprirgli le porte della rocca.  I nemici sono più stanchi di noi, sbarcate  e stringiamoli   in una morsa).

 

“Gal gal” si ferma e beve nuovamente alla bottiglia. Il comandate inglese lo guarda e chiede  al sottotenente.

 

                         Capitano di corvetta: What did he say?

                                                                                             (Che ha detto?).

 

Il tenente  risponde.

 

Tenente di corvettaHe says that in town they can no longer resist the siege because they are without food and weapons.  They have negotiated a truce of ten days with the French after which they will surrender.  He invites us to attempt a landing and fight.

(Dice che in paese non possono più resistere all’assedio perché sono senza cibo e armi. Hanno patteggiato una tregua di dieci giorni con i francesi dopo di che si arrenderanno. Ci invita a  tentare uno sbarco e a  batterci).

 

Il comandante della corvetta ordina.

 

 

          Capitano di corvetta:  Tell him that we cannot go ashore because the French artillery would tear us to pieces.  Tonight we shall return to Sicily and we will inform our superiors about the situation.

(Digli che non possiamo sbarcare perché l’artiglieria francese  ci farebbe a pezzi. Stasera facciamo ritorno in Sicilia e informeremo della situazione i nostri superiori).

 

SCENA 121. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta

Gli assediati affacciati alle mura guardano attenti verso il mare.

 

 

SCENA 122. Esterno Notte. Mare

La corvetta inglese è ancorata al largo.

 

 

SCENA 123. Interno notte. Corvetta inglese

Il capitano di corvetta  inglese fuma la pipa dentro la cambusa in compagnia del suo aiutante.

 

Capitano di Corvetta:  I understand the disappointment of the besieged but orders are orders.  We are certainly not afraid of fighting the French.  We have done so in the month of July not far from here and we defeated them.  I remember that Reynier’s troops, unsurpassable in the advancement phase, were disoriented by our cold-blooded manner of keeping our position and they precipitated in a disastrous retreat as soon as we counter-attacked.

Our strategy has however changed.  Our task is to patrol the Sicilian waters and help the Calabrians in the war against the French.  We continuously disembark weapons and supplies to the rebels and with our ships we bring them to one side of the coast.  The Calabrians, on the other hand, wouldn’t be capable of confronting face to face the enemy in a pitched battle.  They are not soldiers but bandits and attack the French troops from the rear and then take shelter in the mountains.

                  They are wild and primitive people.  By now I know their language and when they come onboard they tell of horrifying things with pride.  The other day they told us that one of their gangs cut to pieces a French soldier, boiled him and forced his fellow-soldiers to eat him.  Such matters disgust us both as men and as soldiers, but the war against France obliges us to help them and encourage them.

                  As for the fortress in Amantea, however, we can do nothing.  

  

(Comprendo la delusione degli assediati ma  gli ordini sono ordini. Noi non abbiamo certo paura di batterci con i francesi. L’abbiamo fatto nel mese di luglio poco lontano da  qui  e li abbiamo sconfitti.  Ricordo che le truppe di Reynier, insuperabili nella fase dell’avanzata, sono rimaste disorientate dal nostro sangue freddo nel tenere la posizione e sono precipitate in una disastrosa ritirata appena abbiamo contrattaccato. 

La nostra strategia è però cambiata. Il nostro compito è quello di pattugliare il mare della Sicilia e aiutare i calabresi nella guerra contro i francesi. Sbarchiamo continuamente armi e viveri ai ribelli e con  le nostre navi  li portiamo  da  una  parte della costa. I calabresi, del resto, non sarebbero  in grado di affrontare faccia a faccia il nemico in una battaglia campale.  Non sono dei soldati ma dei briganti e attaccano le colonne francesi alle spalle per  poi   rifugiarsi sulle montagne.

               E’ gente  selvaggia e primitiva. Ormai conosco la loro lingua e quando salgono a bordo raccontano con orgoglio cose raccapriccianti. L’altro giorno ci hanno detto che una delle loro bande  ha  fatto a  pezzi  un soldato  francese, lo hanno bollito e hanno costretto i  suoi  compagni a  mangiarlo. Sono fatti che ci ripugnano  come uomini e come soldati, ma  la guerra contro la Francia ci impone di aiutarli e incoraggiarli.

Per quanto riguarda la roccaforte di Amantea, però, non possiamo fare niente).

 

 

SCENA 124. Esterno notte. Amantea. Vicolo II

Alcuni giovani con  grosse corde  e tascapani a tracolla scendono lungo il vicolo senza fare rumore e  guardandosi intorno con fare circospetto.

 

 

SCENA 125. Esterno notte. Amantea. Mura di cinta

 

I giovani, tra cui si riconosce “Sona sona”, arrivano alle mura e fissano le corde ad anelli di ferro. Uno alla volta si calano e raggiungono i piedi delle mura. In alto si sentono  grida.

 

             Voce fuori campo: Stannu scappannu! Stannu scappannu!

                                                              (Stanno scappando! Stanno scappando!).

 

 

I giovani si danno precipitosamente alla fuga.

 

 

 

SCENA 126. Interno notte. Magazzino.

Il medico “Salomone”,  “Marat”, Perciavalle, Achille e Bastiano sono riuniti in un magazzino dove ci sono grandi botti di vino. Sul  tavolo c’è un  candelabro  a sette braccia, un cappuccio, un teschio di marmo e  un  pugnale. Stanno discutendo  sull’assedio e sta parlando  “Salomone”.

 

Medico Salomone: Cari fratelli, da  un giorno all’altro i francesi riprenderanno il    

                               paese e  noi saremo chiamati a prenderci le nostre responsabilità.

 

Interviene Marat che ha davanti a sé il bastone col pomo d’avorio a forma di lupo.

 

            Marat: Sì, la prima cosa da fare è costruire una grande forca,  piantarla in

                           piazza e appendere quei cani ribelli  uno a uno.

 

L’uomo comincia a tossire, prende una pillola dalla scatola d’argento e l’ingoia. Il medico  “Salomone”  lo interrompe.

 

           Medico Salomone:  Fratello,  ti  invito alla  calma. Non dobbiamo fare gli errori del passato, dobbiamo capire bene quello che sta accadendo. Non è con la spada che ci si deve rivolgere ai traviati, ma con  la  virtù e  la  ragione.

           Certe volte mi  chiedo, ad esempio, se molta della gente che resiste caparbiamente all’assedio non abbia  la  volontà  di avere una  propria  patria, se non è realmente convinta  di battersi  per una società  libera  dal  giogo  straniero.

 

Prende la parola Perciavalle.

 

           PerciavalleIo penso che a  chi si sta  battendo contro Napoleone non interessa niente della patria. Soprattutto la gente povera è incapace di provare passioni nobili e di comprendere concetti come quelli  di nazione. Questo popolo è coraggioso, abile e feroce, ma solo per mantenere lo status quo.

 

Interviene nuovamente  “Salomone”.

 

           Medico Salomone: Si, è vero,  la  gente povera  si batte per i baroni, per il re e per i preti, ma  che cosa abbiamo fatto noi per portarli dalla nostra parte? Credete  sia sufficiente piantare alberi della libertà, adornarli di nastri e sormontarli di berretti frigi per cambiare il mondo? Credete  sia sufficiente  promulgare delle leggi rivoluzionarie  per realizzare la  felicità  dei  popoli?  No,  fratelli, ascoltatemi, non dobbiamo credere  alla  magica  virtù del  regime repubblicano.

            Se vogliamo distruggere il mondo passato dobbiamo formare gli individui, creare degli uomini nuovi. La plebe, passando dalla schiavitù alla libertà, deve essere educata al patriottismo. Usciamo dalle città e andiamo nelle campagne a persuadere i contadini che gli ideali per cui ci battiamo riguardano la loro felicità. Parliamo loro con una lingua che sia comprensibile, come quella dei predicatori che girano nelle campagne.

            Lasciamo stare le dichiarazioni di principio ed evitiamo soprattutto quegli ideali che urtano il sentimento religioso della gente e che  avallano le dicerie della propaganda sanfedista sulla nostra irreligiosità. Le aquile imperiali napoleoniche,  del resto, non hanno più molto a che vedere con il moralismo rivoluzionario e l’intransigenza giacobina.

 

C’è un momento di silenzio, poi comincia a parlare Achille, un giovane dagli occhi azzurri e lunghi capelli biondi.

 

           Achille: Io sono d’accordo con te  fratello, ma società  come la nostra non sono  adeguate per fare tutto ciò. Alcuni ufficiali francesi mi hanno detto  che  in ogni parte d’Europa si sta affermando una  nuova società segreta che viene nominata Carboneria. I loro affiliati hanno il compito di diffondere il sentimento della patria  e tra i loro iscritti non ci sono solo signori e galantuomini, ma anche contadini e artigiani. Questa nuova società segreta si richiama non ad un Grande Architetto dell’Universo, ma a Gesù Cristo e ai santi, non auspica un rivolgimento totale della società,  ma  graduale  e costituzionale.

 

 

SCENA 127. Esterno giorno. Collina

 

Due briganti con i fucili a tracolla accompagnano un pastore che guida una mandria di vacche e  pecore. Una compagnia di voltigeurs, appostata in cima alla collina,  sbarra loro la strada. I briganti cercano di scappare ma vengono presi a fucilate e cadono. Uno di loro è ferito,  un soldato francese gli si avvicina  e lo infilza con la baionetta. I voltigeurs vanno verso il pastore  terrorizzato.

 

 Pastore: M’hannu  obbrigatu  a  portare  l’animali.  M’hannu  dittu  ca  sinnò   

               m’averranu  ammazzatu. Io  nun  c’intru  nente.

(Mi hanno costretto a portare gli animali. Mi hanno detto che alttrimenti  mi avrebbero ammazzato. Io non c’entro niente).

 

Il capitano ordina ai suoi soldati.

 

             Capitano: C’est  un collaborateur  des brigands. Ils  étaint en train d’amener les

                                        animaux dans forteresse. Fusillez-le !

(E’ un collaboratore dei  briganti. Stavano portando gli animali nella fortezza.  Fucilatelo!

 

Il pastore non capisce ciò che ha detto l’ufficiale, ma appena vede che i francesi caricano i fucili si inginocchia e  piange congiungendo le mani.

 

             Pastore: Nun m’ammazzati, vi priegu, nu m’ammazzati!  Tiegnu cinque criaturi.  Nun   

                               bogliu  moriri!

                      (Non ammazzatemi, vi prego, non ammazzatemi!  Ho cinque figli piccoli.  Non

                                 voglio morire!)

 

Un militare gli punta il moschetto  e spara. L’uomo cade stramazzando a terra.

 

 

 

SCENA 128. Interno Giorno.  Cisterna

 

Una popolana, chiamata “Zapopa”, poiché sembra essere una befana, sta prendendo acqua dal pozzo del castello che versa in un barile e nelle “cucume”. Insieme a lei ci sono  tre  bambini magri e pallidi, con i vestiti laceri e i capelli rapati. La donna guarda nella Mdp.

 

Zapopa: Cumu stamu? Cchiù  scuru  da  mezzanotte  un  po’ vena.  Guardàti  i piccirilli  e  capisciti. Tenanu  facce  senza  culuritu  e  paranu  tutti   cunsumati. Ssa  guerra  è maliditta. I  ciucci  si  lieticanu  e  i  varrili  si rumpanu.  I  re fannu  ‘a  guerra  e nua  ciangimu,  siminanu  spine e nua  ni pungimu. Autri  due  o  tri   juorni  e  pua  jamu   nue  mamme  a  rape  ‘e porte ari  francisi. Giacubbini o  nu’  giacubbini  i  figli nuostri   ‘un  ponnu  moriri  di  fame!

(Come stiamo? Più scuro della mezzanotte non può venire.  Guardate i bambini e lo capite. Hanno  facce senza colorito e sembrano tutti consumati. Questa guerra è maledetta. Gli asini litigano e i barili si rompono. I re fanno la guerra e noi la piangiamo,  seminano spine e noi ci pungiamo. Altri due o tre giorni e poi  andremo noi mamme  ad aprire le porte ai francesi. Giacobini o non giacobini i figli nostri non possono morire di fame!).

 

 

 

SCENA 131. Interno  giorno. Casa

 

Si sentono palle di cannone che sibilano e cadono rovinosamente sulle abitazioni.  “Ziarella” toglie da una terracotta un piccolo pezzo di carne salata piena di vermi, la lava dentro una casseruola, l’asciuga, l’odora e  ha un’espressione di disgusto. Prende da una cassa un pezzo di pane nero ammuffito avvolto in un tovagliolo, lo fa a pezzi con un’ascia, lo mette in un piatto e vi versa sopra dell’acqua con una brocca. Guarda nella Mdp.

 

Ziarella: E’ miegliu  ‘u  pane  nivuru  tuostu  ca  a  fame  nivura  tosta. E’ quasi nu mise ca dura ssa guerra e simu distrutti. Jati  girannu ‘ntra  le viuzze du castrieddru   e  viditi  gente  senza pane, senz’acqua  e senza  medicine. ‘Ntra le  case  nun  c’è mancu  nu  pune  di  granu   o  de  risu  e  ppe’ mangiare carne va a finire  ca ni mangiamu tra cristiani.  Stamu  moriennu  pur’e  de  friddu  e  ppe’ ni quadiare  e  cucinare amu tagliatu  l’arvuli   d’i  jardini e  ri   travi  de  le case.   

(E’ meglio il pane duro nero che la  fame dura nera. E’ quasi un  mese che dura questa guerra  e siamo distrutti. Girate nei vicoli della rocca e vedrete gente  senza pane, senza acqua e senza medicine. Nelle case non c’è neanche un pugno di grano o di riso e per mangiare carne finirà che ci mangeremo tra cristiani.  Stiamo morendo anche dal freddo e per riscaldarci e cucinare abbiamo tagliato gli alberi dei giardini e utilizzato travi delle  case).

 

 

 

“Ziarella” prende il piatto e si avvicina al  letto dove  è coricato “Pisci rè”. La donna lo fa sedere, gli fa mangiare un po’ di pane e guarda nella Mdp.

 

                    Ziarella: Sù due  juorni ca  li  gira a capu e ‘un rescia  cchiù  a  stare all’impiedi. ‘A  dittu  ca  ‘a  sbattutu ‘a  capu jocannu, ma ‘a verità  è ca mangia  pocu  da   tanti  juorni! Si sa guerra ‘a  chicatu pura  ‘Pisci rè’  vo  dire  ca  è  na  brutta  guerra!

 

                    (Sono due giorni che gli gira la testa e non riesce più a   stare più in piedi. Ha detto che ha battuto la testa giocando ma la verità è che  mangia poco  da tanti  giorni! Se questa guerra ha piegato pure “Pisci rè”  vuol  dire  che  è  una  brutta  guerra).

 

SCENA 130. Esterno giorno. Amantea. Forte

 

Sul forte sventola la bandiera borbonica.

 

 

SCENA 131. Interno giorno. Sala d’arme

 

Il tenente colonnello Mirabelli scrive alcune  righe su un foglietto di carta che consegna ad  un soldato. Questi si allontana, poi guarda nella Mdp e parla con tono sfiduciato.

 

Tenente colonnello Mirabelli:  La situazione è grave, ormai non possiamo più resistere. La  popolazione è  affamata. Pane, vino e carne non se ne vedono da  un  pezzo. I forni, che due mesi fa’  riuscivano a dare mille razioni giornaliere, sono chiusi. Oggi abbiamo mangiato gallette e fichi secchi. Ieri pane ammuffito impastato con ceci, fave e castagne. In paese ormai i francesi non fanno entrare neanche  una gatta.

I nostri uomini sono stanchi e indisciplinati. Giorni fa se una  donna coraggiosa, una certa Noto, non avesse dato l’allarme, i francesi ci avrebbero sorpresi nel sonno.

 Molti giovani non vogliono più combattere e ogni notte qualcuno di loro  si  cala con le corde dalle mura  e  scappa. Sono scappati anche molti briganti che facevano i gradassi.

Tutti in paese vorrebbero una  resa  dignitosa, ma nessuno ha il coraggio di dirlo perché c’è  paura. Anche se non è piacevole ammetterlo, in paese  ormai da  tempo comandano i briganti, e di resa non vogliono sentirne  parlare perché sanno che finirebbero su una forca. Alcuni sgherri di un capo massa, due giorni fa, nonostante noi non eravamo d’accordo, hanno ucciso un  onesto compaesano a colpi di pietra davanti alla moglie e ai figli solo perché aveva detto che forse conveniva arrendersi ai francesi. Io stesso sono stato accusato di essere un traditore e ho rischiato di essere linciato perché ho concordato una  tregua con i francesi e adombrato la  possibilità di una  onorevole capitolazione.

 

 

SCENA 132. Esterno giorno. Amantea. Galleria porta sud

I soldati del genio  scavano la galleria per sistemare una mina ai piedi della porta sud. Due zappatori escono dal tunnel con ceste piene di terra e pietre. Uno di loro, tutto sporco di terra, si rivolge all’ufficiale Montemajor.

 

               Zappatore: Nous sommes arrivés aux pieds des murs de la ville .

                                        (Siamo arrivati ai piedi delle mura).

 

L’ufficiale ha un’espressione soddisfatta.

 

               Montemajor: Bien!.

                                       (Bene!).

 

L’attenzione dei soldati è rivolta di colpo in direzione della roccaforte.

 

 

SCENA 133. Esterno giorno. Amantea. Bastione porta sud

Un ragazzo, Pietromalo,  viene calato dalle mura con una fune. Ha in mano una bandiera bianca e una lettera.

 

SCENA 134. Esterno giorno. Amantea. Galleria porta sud

 

Il ragazzo  si slega  la corda dai fianchi e si avvia verso la galleria, ma Montemajor gli va incontro e lo afferra per un braccio.

 

            Ufficiale Montemajor: Qu’est-ce que tu veux?

                                                                       (Che vuoi?).

 

Pietromalo, per niente impaurito, mostra la lettera.

 

                         Pietromalo Aiu di dare ‘sa  littera  aru  generale  ppe’  cuntu  de  li capimassa.

                         (Devo dare  questa lettera al generale Reynier per conto dei capimassa).

 

L’ufficiale prende un fazzoletto dalla tasca e benda il ragazzo.

 

 

SCENA 135. Interno giorno. Tenda militare

I generali Reynier, Verdier e Peyer stanno guardando una mappa della fortezza insieme a due ufficiali e al colonnello Amato. Nella tenda entra Montemajor e si rivolge a Reynier.

 

           Montemajor: Monsiuer le Général, il y a un garçon qui veut vous parler. 

                               Il l’ont trouvé près des murs de la ville avec une lettre qui vous est adressée.

                                          (Signor Generale, c’è un ragazzo che vuole parlare con voi.

                                               L’hanno calato dalle mura e ha  una  lettera  da  consegnarvi).

 

 

Il generale  Reynier alza la testa.

 

             Generale Reynier: Faite-le passer!

                                                            (Fatelo passare!).

 

Montemajor esce dalla tenda ed entra con Pietromalo.  Reynier  guarda con aria severa il giovane che, superata l’emozione, parla come se ripetesse  qualcosa a memoria.

 

                              PietromaloGinirale, mi chiamu  Giuseppe Pietromalo. I  capimassa m’annu dittu  di  vi  portare  ssa  littera.

 

                  (Generale, mi chiamo Giuseppe Pietromalo. I capimassa mi hanno detto di portarvi questa lettera).

 

Il generale prende la lettera e la porge al colonnello Amato che inizia a leggerla.

 

            Colonnello Amato Generale, è inutile che ci  inviate appelli a deporre le armi. Noi umili servitori del nostro Re Ferdinando e dell’amata  regina Carolina non ci arrenderemo mai. Con voi infami francesi  non  abbiamo niente  da dirci. Siete delle canaglie e dei libertini venuti nelle Calabrie per calpestare la  patria, l’onore e la religione. Noi vi giuriamo che vi daremo la morte fino a quando non farete ritorno nel  vostro  schifoso paese.

                        Siamo  a conoscenza che state per fare scoppiare una mina sotto il bastione Paraporto,  ma sappiate che sopra quelle mura  sistemeremo tutti i vostri soldati  e i giacobini nostri prigionieri.

 

Fuori si sente un tramestio di voci e  gli ufficiali escono dalla tenda.

 

 

 

SCENA 136. Esterno giorno. Accampamento napoleonico

I soldati francesi stanno guardando  verso le  mura.

 

 

SCENA 137. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta.

 

Un uomo con una fascia tricolore sul petto e un giovane sergente francese sono sulle mura del bastione con le mani legate. Mele grida a squarciagola.

 

Capo brigante Mele: Francisi e giacubbini di merda, chissu è chiru ca  vi  meritati. Pruvati a  trase  ‘ntra  rocca  e ‘bi   facimu   fare ‘a  stessa  fine.

(Francesi e giacobini di merda, questo è ciò che  vi  meritate. Provate ad entrare  nella rocca e vi faremo fare la stessa fine).

 

Qualcuno grida:  Figli ‘i puttana!  Piezzi ‘i merda!  Curnuti!

                                     (Figli di puttana! Pezzi di merda! Cornuti!).

 

 

SCENA 138. Esterno giorno. Accampamento napoleonico

 

I francesi guardano la scena impotenti.

 

 

SCENA 139. Esterno giorno. Amantea. Mura di cinta

 

I due prigionieri vengono spinti e fatti precipitare dalle mura. Gli assediati applaudono e sventolano bandiere borboniche. Alcuni pisciano dalle mura e  altri sputano.

 

 

 

 

SCENA 140. Esterno giorno. Accampamento napoleonico

 

Reynier con tono perentorio si rivolge all’ufficiale Montemajor.

 

            Generale Reynier: Avancez!

                                                        (Procedete!).

 

SCENA 141. Esterno giorno. Amantea. Galleria porta sud

 

L’ufficiale Montemajor  da’ ordini  ai suoi. Gli artificieri francesi prendono le casse di polvere ed entrano nella galleria per sistemarle ai piedi del bastione. Un sergente del genio con l’uniforme sporca di fango si rivolge a Montemajor.

 

SergenteC’est toute  le journée  que ces sauvages nous ont cracher et pisser dessus! Mais pour celui qui crache et qui pisse en l’air,  son  crachat et sa  pisse  se retournent contre lui.

            (E’ tutto il giorno che questi selvaggi ci hanno sputato e pisciato. Ma   a chi sputa e a  chi  piscia  in aria, lo sputo e la  piscia ritornano in  faccia).

 

 

SCENA 142. Esterno giorno. Mare

Il sole scompare dietro l’orizzonte.

 

 

SCENA 143. Esterno notte. Amantea. Bastione porta sud

 

La mina scoppia. Si sente un fragore di mura cadenti e si solleva una nube di polvere e di fumo. Il parapetto del bastione  Paraporto crolla.

 

 

SCENA 144. Esterno notte. Amantea.  Porta sud

Un ufficiale francese sguaina la sciabola e incita i soldati all’attacco. Carabinieri e granatieri entrano  nella breccia.

 

 

SCENA 145. Cartello

Amantea,  7 febbraio  1806.

 

 

SCENA 146. Esterno giorno. Casa colonica

Alcuni militari sono di guardia davanti ad una casa colonica.

 

 

SCENA 147. Interno giorno. Casa colonica. Magazzino

Nella stanza intorno ad un  tavolo sono riuniti da una parte  i generali Reynier, Verdier, Peyri e il colonnello Amato, dall’altra il tenente colonnello Mirabelli e l’aiutante Stocco. Il generale Peyri sta leggendo su un foglio le modalità della resa.

 

           Generale Peyri: Art. 1° La Ville et le chateau d’Amanthea s’en remettent à la générosité française; Art. 2° La porte Paraporto et celle  extérieure du château seront démolies sans délai; Art. 3° Le chateau sera rendu tout de suite aux troupes françaises; Art. 4° On accorde jusqu’à vingt-et-un heures d’Italie pour la reddition de  la Ville afin d’avoir le  temps d’établir la police la plus exacte; Art. 5° Les masses ayant fait des demandes particulières, et ayant été convenu qu’il serait une liste de ceux qui désireraient jouir de l’amnistie et se retirer dans leur famille, il sera statué sur leur sort par le général en chef, et on aura des égards pour ceux qui seront recommandés par les otages ; Art. 6° Tous les habitants déposeront les armes et jouiront d’un pardon général après avoir promise fidélité a S.M. Joseph Napoléon,

           à  l’exception néanmoins de ceux qui seront désignés pour avoir empêché l’exécution des conditions plus favorables proposées le 31 janvier, ainsi que de l’auteur de la lettre insolente ; Art. 7° M. Ridolfo Mirabelli avec toute sa famille ainsi que M. Stocco pouvant se retirer en Sicile, il leur sera délivré à cet effet un passeport;  Art. 8° Tous les détenus au château seront mis à la disposition du général en chef. Le lieutenant colonel Ridolfo Mirabelli. Le général comm.t la Calabre Citérieure et les assiégeants  Amantea Peyri. Approuvé par le général commandant en chef  le corps d’armée dans les Calabres.

 

(1°La città ed il castello di Amantea si rimettono alla generosità francese; 2° La porta di  Paraporto e quella  esteriore del castello saranno immediatamente demolite ; 3° Il castello sarà subito consegnato alle truppe francesi; 4° Per la resa della città si accorda una dilazione fino alle 21 d’Italia, onde si abbia il tempo di stabilirvi il più esatto servizio di  polizia ; 5° Avendo le masse formulate delle domande particolari, ed essendo stato convenuto che sarà presentato un elenco di coloro i quali avessero desiderato usufruire dell’amnistia e far ritorno nelle loro famiglie, sulla loro sorte deciderà il generale in capo, ed userà dei riguardi per coloro che verranno raccomandati dagli ostaggi ; 6° Tutti gli abitanti deporranno le armi e godranno di un indulto generale dopo aver promesso fedeltà a S.M. Giuseppe Napoleone, eccezion fatta nondimeno di coloro che saranno deferiti per avere impedito l’esecuzione delle clausole più  favorevoli  proposte il  31 gennaio, come pure dell’autore della lettera insolente ; 7° Il signor Ridolfo Mirabelli con tutta la sua famiglia, come pure il sig. Stocco, potranno trasferirsi in Sicilia. Verrà ad essi rilasciato a questo scopo un passaporto; 8° Tutti i detenuti del castello saranno messi a disposizione del generale in capo. Il tenente colonnello : Ridolfo Mirabelli. Il generale comandante la Calabria Citeriore e le truppe di assedio Peyri. Approvato dal generale comandante in capo i corpi d’armata nelle Calabrie).

      

 

 

SCENA 148. Esterno giorno. Amantea. Forte

Sulle mura del bastione viene ammainata la bandiera borbonica e issata la bandiera francese.

 

 

SCENA 149. Esterno notte. Amantea. Piazza grande

Ad una barra di ferro che  spunta da una casa sono  appese due  teste di uomini con la barba e due cappelli a cono. Una compagnia di fucilieri francesi  inquadrati   passano  per  la piazza. Il calpestio dei soldati viene coperto da una musica e da un vociare che si  diffonde da un palazzo signorile dove sono accese le luci.

 

 

SCENA 150. Interno notte. Salone

Nel salone pieno di quadri, candelabri e tappeti,  soldati francesi in alta uniforme ballano una quadriglia con  nobildonne vestite elegantemente. Sono tutti sorridenti e si divertono. Un cameriere in livrea serve con un grande vassoio pasticcini, biscotti e bicchierini di rosolio  ad  alcuni  ufficiali e galantuomini seduti sulle sedie e sui divani. Si riconoscono  i generali Verdier, Reynier e Peyri, il colonnello Amato, il capitano Cozza, il giovane Achille,  Perciavalle, “Marat” e il medico “Salomone”. 

 

 

SCENA 151. Esterno notte. Amantea. Palazzo signorile

Le luci del palazzo sono accese. Un cupo  rullio di tamburi copre la musica  e i rumori della festa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCENA 152. Esterno notte. Amantea. Spianata del forte

Sulla spianata c’è un forte vento che sibila sinistramente. I corvi stanno appollaiati sui torrioni.  I tamburini smettono di suonare i loro strumenti.  “Malanima”, frate Michele, “Garrubba”, “Pennicchia” e altri due ribelli sono disposti in fila sulla spianata con le mani legate. Altre quindici persone, anch’esse legate con delle corde,  aspettano poco lontano sorvegliate dai soldati. Di fronte ai prigionieri c’è una compagnia  di granatieri francesi schierati in doppia fila e un sergente che sta dando  ordini.

 

           Sergente: Pointer!

                                    (Puntare!).

 

I soldati prendono la mira.

 

            Sergente: Feu!

                                    (Fuoco!).

 

I ribelli cadono e alcuni stramazzano all’indietro per il forte impatto delle palle. Due uomini rimasti feriti vengono infilzati da un granatiere con la baionetta. I corvi sembrano osservare la scena. La compagnia di soldati arretra di un passo. Altri sei detenuti vengono disposti  davanti  ai  cadaveri e fra loro si riconosce  “Gal gal”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sinossi

 

Nel 1806 in molti centri della Calabria la popolazione si solleva contro i reggimenti francesi che occupano la regione. I ribelli, per fronteggiare il nemico, sceglievano due strategie: agguati incessanti nelle campagne e resistenza ostinata dentro le mura di vecchie roccaforti.

“La rocca di Gal gal” è un film che ricostruisce l’assedio di Amantea. Nel mese di luglio  una flotta inglese bombarda  la rocca che  si affaccia sul mare e gran parte della popolazione insorge contro la guarnigione napoleonica che è costretta ad abbandonare il paese. La bandiera francese viene ammainata e viene issata quella borbonica. 

Arrivano da ogni parte della regione bande di “massisti” che i francesi chiamano briganti, i quali prendono in mano il paese e organizzano la resistenza. Un giovane giacobino viene portato su un asino e insultato dalla popolazione tra suoni e canti sanfedisti. Altri compagni vengono fatti prigionieri e massacrati.

Verso la fine di settembre, una colonna francese  proveniente da Cosenza   assalta la fortezza, ma viene respinta dalla dura reazione dei lealisti e costretta a ritirarsi. Gruppi di giacobini vengono fucilati davanti  ai loro parenti e una nobildonna fa celebrare un Te Deum per ringraziare il Signore  della vittoria.

Agli inizi di dicembre i francesi, però,  al canto della “Carmagnola”,  ritornano nuovamente con  un possente esercito e assediano da tutti lati la roccaforte. Ad Amantea c’è una mobilitazione generale. Un corteo di uomini, donne e bambini, porta in giro la statua  di Sant’Antonio al suono di tamburelli, viole e grancasse. Preti, briganti, nobili ed ex ufficiali borbonici invitano la popolazione  a combattere.  La statua del santo viene collocata bene in vista sulle mura con un fucile a tracolla per difendere  il paese.

Inizia l’assedio. L’artiglieria napoleonica  bombarda costantemente le mura e le case, compagnie di fucilieri effettuano finti attacchi per far sprecare munizioni ai lealisti, la fanteria presidia la spiaggia per scoraggiare sbarchi nemici, compagnie di voltigeurs pattugliano le colline per impedire rifornimenti di uomini, armi e viveri agli assediati.

 

Gli amanteoti e i briganti respingono con valore alcuni attacchi dei reparti napoleonici e delle guardie civiche, ma, col passare dei giorni, armi e munizioni cominciano a scarseggiare e gli aiuti promessi non arrivano.  Le navi inglesi e siciliane, di tanto in tanto appaiono nella rada, sparano qualche colpo di cannone e poi scompaiono all’orizzonte. Un rivoltoso, “Gal gal”, si cala dalle mura e raggiunge  a nuoto una corvetta inglese per avvisare che il paese è allo stremo.

Mentre nei giorni di Natale e Capodanno nel campo francese i soldati mangiano carne, bevono acquavite e cantano la Marsigliese, nella roccaforte la gente muore di fame e i cadaveri vengono sepolti alla meglio su una spianata presidiata dai corvi. Mancano cibo, acqua, medicine e molti giovani  trovano pretesti per non combattere  e di notte scappano calandosi dalle mura.

Fra gli insorti ci sono profonde  divisioni. C’è chi sostiene di prendere la via dei monti, chi di resistere fino alla fine, chi di contrattare una resa. Il governatore di Amantea, e con lui gran parte della popolazione, è favorevole a una capitolazione onorevole e stipula una tregua di dieci giorni con l’esercito francese, ma le bande dei briganti costringono col terrore  gli assediati a resistere. Alcuni galantuomini, accusati di tradimento, vengono barbaramente uccisi e lo stesso governatore   rischia di essere linciato.

Il generale Reynier, in seguito ad una lettera recapitatagli da un ragazzo in cui i massisti esprimevano il loro disprezzo nei  confronti dei francesi e,  dopo che alcuni prigionieri francesi e giacobini venivano scaraventati dalle mura, fa brillare una potente mina posta sotto il bastione Paraporto. L’esplosione crea una grande breccia che consente all’esercito napoleonico di entrare e  conquistare la roccaforte.

Agli inizi del febbraio 1807 il governatore di Amantea firma le condizioni della resa. Sul forte viene ammainata la bandiera borbonica e issata quella francese. Giacobini, gentildonne e ufficiali  napoleonici celebrano la presa della rocca con una festa da ballo mentre i rivoltosi, tra cui “Gal gal”, vengono fucilati sulla spianata del forte.

 

 

“La rocca di Gal gal” è un film in cui spesso i protagonisti, guardando nella macchina da presa, raccontano i quaranta giorni dell’assedio. I giacobini  accusano i borboni di avere assoldato  avventurieri ed ex galeotti liberati dalle galere. I francesi  accusano nobili e chierici di  impedire la liberazione dei popoli approfittando dell’ignoranza e della superstizione del popolino. I borboni accusano i francesi di aver invaso la loro legittima patria  per  depredarla e asservirla agli interessi della Francia.  I preti accusano  i giacobini  di voler  assoggettare la chiesa  per imporre i loro costumi  atei e libertini. Gli inglesi  accusano i francesi di volere conquistare  e colonizzare in nome della democrazia e della libertà tutta l’Europa. I briganti accusano i soldati dell’ex esercito borbonico di essere  pavidi  e si proclamano  i veri difensori del re, della patria e della fede.

Ai margini di questo scontro sociale, politico, culturale e religioso c’era una gran massa di persone che non parteggiava né per i realisti, né per i repubblicani. La popolazione subiva la guerra e non comprendeva le ragioni del conflitto,  ma in gran parte era comunque restia ai mutamenti, poiché essi avevano sempre rappresentato un peggioramento delle  sue condizioni di vita.

La resistenza di Amantea e l’insurrezione delle Calabrie rientravano all’interno dello scontro strategico che contrapponeva la Francia all’Inghilterra, ma anche di un conflitto che vedeva fronteggiarsi gruppi sociali che tendevano verso un processo di riforme e di modernizzazione della società e gruppi sociali  che volevano, invece, il mantenimento degli antichi legami della società.

C’era gente che combatteva per instaurare la libertà e altri per opprimerla, gente che voleva  rovesciare i re e altri per mantenerli sul trono. Se ad Amantea alcune famiglie erano schierate con Re Ferdinando, altre erano schierate con Re Giuseppe Bonaparte. All’interno delle stesse famiglie e dei ceti sociali  vi erano elementi che parteggiavano per l’una o l’altra fazione. Era in atto una vera e propria guerra civile e, come ogni guerra civile,  lo scontro  assumeva un carattere divino, una guerra di religione.

 

 

Alcuni dicevano di combattere per la fede di Dio e per la patria, altri per la fede della libertà e per l’umanità. 

Lo scontro era duro, caratterizzato da una violenza estrema che culminava in uccisioni efferate e rituali. Ad alcuni venivano mozzate le teste, altri sgozzati davanti ai propri figli, altri ancora scaraventati dalle mura, altri infine, lapidati o impiccati.  La guerra,  col passare del tempo, perdeva il suo carattere politico per diventare un mezzo per regolare  conti, per estinguere rancori e, a volte,  anche  debiti.

Un assedio non è fatto solo di assalti e battaglie che sembrano sottrarsi alla ragione, ma anche di lunghe  pause e ozi durante i quali i contendenti parlano e riflettono. Francesi, inglesi, borboni, guardie civiche, giacobini, preti, briganti, massisti, nobili e popolani durante l’assedio, guardano anche criticamente a ciò che sta accadendo e a quello che stanno facendo. I soldati francesi si rendono conto che i calabresi combattono contro di loro a causa delle requisizioni forzate e perché sono un esercito di occupazione; gli inglesi sono consapevoli di essere lì non perché abbiano a cuore la sorte dei rivoltosi, che ritengono dei barbari, ma per difendere gli interessi della loro patria minacciata dal blocco continentale; i briganti si sentono i difensori del re e della religione, ma sanno che il loro destino sarà sempre quello di stare alla macchia; i giacobini capiscono che non basta innalzare gli alberi della libertà per fare un buon governo e che per cambiare il mondo c’è bisogno di programmi politici graduali e di associazioni che coinvolgano grandi masse. La popolazione si rende conto  che quando i potenti litigano a pagarne le conseguenze sono come sempre i poveri e che quando i governi  cambiano, muta solo il nome dei padroni.

Durante i quaranta giorni, assediati e assediatori  aspettano e l’attesa, col passare del tempo, diventa disperazione. La guerra è soprattutto paura, malattie, stanchezza, fame e sete. Come accade sempre in ogni  lungo  assedio, alla  fine  sono  tutti  stremati e  sconfitti.

 

 

 

Appunti  sull’assedio di Amantea.

 

Amantea, paese calabrese che si affaccia sul mare, aveva alla sommità un forte di antica costruzione circondato  da solide mura costruite sulla roccia a strapiombo e guarnite nell’estremità da due bastioni e due porte: ad est quella detta Paraporto e a ovest quella detta Catocastro.

Nel marzo 1806 il paese fu occupato da una guarnigione  polacca dell’esercito napoleonico, ma la sera del 1 luglio una flotta inglese e borbonica bombardò la roccaforte e il presidio francese, di fronte all’insurrezione della popolazione, abbandonò la posizione e ripiegò su Cosenza insieme ad alcuni giacobini. Gli inglesi sbarcarono, entrarono in paese insieme ad un gruppo di volontari guidati da “Fra Diavolo”, nominarono castellano don Ridolfo Mirabelli e  ritornarono sulle  loro navi.

La notizia della liberazione di Amantea si sparse nella provincia e  cominciarono subito a confluire nella roccaforte alcune bande di capimassa e sbandati dell’ex esercito borbonico. Per due mesi e mezzo il paese non  ebbe noie  ma il  17 settembre una colonna di soldati napoleonici di circa mille uomini arrivò sotto le mura di cinta. L’esercito, comandato  dal generale Verdier, era composto da un reparto di fanteria leggera, alcune squadre civiche e un reggimento di linea.  Nonostante l’attacco alla rocca fosse stato violento i francesi vennero respinti e costretti a ritirarsi.

Il Verdier ritornò il  3 dicembre con due battaglioni di linea, un battaglione di fanteria leggera, un battaglione di corsi, uno squadrone di dragoni, un reparto di guardie civiche e un reparto del genio. L’esercito aveva due obici e due cannoni, lunghe scale, funi e materiale per costruire trincee. La sera del 5 i soldati  francesi  si impadronirono delle case ai piedi della fortezza e, al mattino seguente,  attaccarono la rocca in diversi punti per obbligare gli insorti a frazionare le forze. I battaglioni, avvisati con un colpo di cannone, sferrarono  l’attacco decisivo, ma la  risposta degli assediati fu nuovamente dura e inaspettata. Gli insorti si scagliarono furiosamente sui napoleonici, rioccuparono le case del borgo e  li costrinsero alla fuga.

 

La sconfitta dei francesi  ebbe una forte eco nel Regno. Amantea, con la sua  resistenza eroica,  aveva detto al mondo che  i calabresi  erano capaci di morire sui bastioni piuttosto che arrendersi.

Nonostante gli insuccessi, i francesi erano intenzionati a prendere a tutti i costi la roccaforte perché strategicamente importante dal punto di vista militare e politico. Dopo l’arrivo di un reparto di fanteria, la notte dell’8 dicembre, approfittando di una fittissima nebbia, attaccarono il paese dal lato mare. I guastatori avrebbero dovuto demolire il parapetto di cinta ma, a pochi passi dalle mura, una donna di vedetta, Elisabetta Noto, diede l’allarme. Gli amanteani, svegliati dalle sue grida, accorsero verso il bastione e cominciarono a sparare  costringendo i francesi ad arretrare.

Il Verdier  e i suoi ufficiali, che inizialmente avevano giudicato Amantea un debole presidio di gente raccogliticcia e male armata, dopo i ripetuti assalti si resero conto che le operazioni per riconquistarla erano lunghe. La roccaforte aveva solidissime mura ed  era difficile  avvicinarsi ad essa per le asperità del terreno; gli insorti avevano dimostrato inoltre di essere abilissimi nel combattimento, di avere un odio implacabile nei confronti del nemico e un noncurante disprezzo verso la morte. A dirigere la difesa c’erano alcuni ex soldati borbonici che obbedivano al tenente colonnello Mirabelli, ma la forza militare stava  soprattutto nelle bande di briganti accorsi da ogni parte della regione.

I francesi  però avevano ormai circondato il paese e nessuno poteva ormai entrare o uscire dalle mura di cinta. Dopo i ripetuti scontri, tra gli assediati cominciavano  a scarseggiare piombo e polvere da sparo nonché i proiettili dei vecchi cannoni sistemati sui bastioni. In paese scarseggiavano anche acqua,  medicine  e  viveri e cominciavano a diffondersi epidemie per le precarie condizioni igieniche.

Gli attesi aiuti della marina siculo-inglese non arrivavano. Il 29 e il 30 dicembre  quattro corvette inglesi spararono qualche colpo di cannone contro i francesi, ma la decisa  reazione  dell’artiglieria  napoleonica le costrinsero ad allontanarsi tra la delusione degli amanteani che guardavano dai bastioni.

 

Intanto, ai piedi della roccaforte, continuavano ad arrivare truppe francesi, guardie civiche  e volontari giacobini. Alla fine di dicembre intorno alle mura c’erano oltre 3500 uomini, con artiglieria e materiale d’assedio.  Un battaglione di  corsi e  uno di  fanteria presero posizione nella zona di Pianomarina, sulle colline del Camolo, un reparto di fanteria si stabilì sulla Cannavina e altri due battaglioni di fanteria  stazionavano alle spalle del paese per impedire sortite delle bande di insorti. Gli zappatori e le guardie provinciali occuparono S. Bernardino e a queste truppe si aggiunsero successivamente, alcuni soldati di un reggimento a cavallo. L’artiglieria, che comprendeva in principio soltanto un mortaio, due obici e un pezzo da 12, fu rafforzata con altri quattro cannoni e venne sistemata  tra il convento di San Bernardino e  la cappella del Carmine.

Il 4 gennaio Verdier fece arrivare agli insorti un proclama in cui concedeva l’amnistia a coloro che avessero deposto le armi e giurato di non combattere più i francesi. Non avuta alcuna risposta il 5 diede ordine all’artiglieria di  cannoneggiare il fianco sinistro del bastione Paraporto perché presentava minore resistenza.

Nella notte del 6 golette inglesi spararono alcuni colpi di cannone contro i soldati francesi che costruivano delle trincee e, al mattino dell’11, due navi borboniche cercarono inutilmente di avvicinarsi alla spiaggia per tentare una sortita. Il pomeriggio del 12 una squadra navale  napoletana,  composta da una fregata, due corvette, una galeotta e due scialuppe cannoniere, entrò nelle acque di Amantea e, giunta vicina alla spiaggia, calò alcune scialuppe. Un gruppo di assediati, approfittando dell’aspra battaglia tra le navi e l’artiglieria francese, riuscirono a raggiungere la spiaggia e si impossessarono di  viveri, armi e munizioni.

La sera del 13 gennaio l’artiglieria francese, dopo un intenso bombardamento, r aprì una breccia nel Paraporto. Il generale Verdier, alla testa del reparto di guastatori, si lanciò risolutamente all’assalto, ma la durissima reazione degli assediati  obbligò i francesi a retrocedere.  Dal 15 al 17 gennaio, dopo un continuo martellamento dell’artiglieria, alcuni  capi dei ribelli abbandonarono il paese senza che i francesi intervenissero.

 

 

Reynier inviò al governatore Mirabelli una lettera esortandolo alla resa ed ebbe uno sdegnato rifiuto. Il 19 gennaio seguì una missiva del colonnello amanteota dell’esercito francese Luigi Amato,  per persuaderlo alla resa e questa volta il governatore del paese accettò chiedendogli però dieci giorni di tregua per addivenire ad un accordo. Mirabelli   sperava che nel frattempo arrivassero uomini e armi dalla Sicilia. Il 27, un popolano, tale Giuseppe Francesco Secreti, soprannominato “Gal gal”, sfidando i colpi delle sentinelle francesi, si calò con una fune dal bastione, arrivò alla spiaggia e raggiunse, nuotando nelle gelide acque, una fregata inglese ormeggiata al largo. Il 29 gennaio alcune navi borboniche calarono alcune scialuppe piene di armi e viveri ma l’artiglieria francese cominciò a sparare costringendoli a recedere dal proposito.

Il 30 gennaio, scaduta la tregua, le batterie francesi  riaprirono il fuoco. Il Mirabelli si recò personalmente al campo francese e concordò col generale Peyri una onorevole capitolazione ma,  ritornato in paese, fu accusato di tradimento da alcuni capibanda e rischiò di essere fucilato. Su istigazione di alcuni capimassa, due prigionieri, tra cui un sacerdote, furono massacrati,  i loro corpi fatti a pezzi e buttati dall’alto delle mura. Gli assediati tramite un ragazzo fecero pervenire ai francesi una lettera piena di scherno e minacciarono che avrebbero messo soldati  francesi e giacobini  nel luogo dove doveva scoppiare la mina.

Il 5 febbraio gli artificieri francesi, terminati i lavori di scavo della galleria,  sistemarono le casse della polvere e la sera del giorno dopo accesero le micce e le fecero brillare. Lo scoppio fu  terribile, si udì un fragore di mura cadenti e si sollevò una nube di polvere e di fumo. Il parapetto del bastione si rovesciò presso la porta di Paraporto. La fanteria leggera napoleonica attaccò subito entrando nella breccia, ma gli assediati cominciarono a sparare dalle finestre delle case  costringendola a ripiegare. Calata la sera, approfittando dell’oscurità, i soldati napoleonici tentarono un nuovo attacco  e  ci fu una mischia terribile. I capibanda, che avevano voluto la resistenza fino alla fine,  abbandonarono il paese e presero la via dei monti.

 

Il Mirabelli il 6 febbraio, dopo aver fatto issare sul castello una bandiera bianca, mandò un suo tenente  per trattare la fine delle ostilità, ma il generale Reynier non accettò alcuna condizione. Facendosi calare dalle mura con una fune  Mirabelli si recò personalmente al campo francese per chiedere la resa. Alle ore 10,00 del 7 gennaio, dopo quaranta giorni di assedio, le truppe napoleoniche entravano in paese. Il vessillo borbonico veniva ammainato e innalzata la bandiera francese.

 

Per una ricostruzione dell’assedio di Amantea cfr. Francesco Carratelli, Commemorazione del primo centenario dell’assedio di Amantea. 7 febbraio 1807, Napoli, tip. Kumlin & Carbonini, 1907; Cesare Cesari, L’insurrezione calabrese nel 1806 e l’assedio di Amantea, Estratto dalle Memorie Storiche Militari. Comando del Corpo di Stato Maggiore. Ufficio Storico, fasc. I, Roma, Officina Poligrafica Editrice, 1991; Guido De Mayo, L’insurrezione calabrese dalla battaglia di Maida all’assedio di Amantea, Estratto da “Archivio Storico della Calabria”, A.I, Mileto-Catanzaro,  1912-1913; Luigi Maria Greco, Storica  narrazione intorno all’assedio di Amantea, Cosenza, Casa del Libro 1972; Id., Annali di Citeriore Calabria dal 1806 al 1811,  Vol. I-II, Cosenza, Ed. Davide Migliaccio, 1872 ; Giovan Battista Micheli, I ‘massisti’ e l’armata di Massena in Calabria, Cosenza-Roma, La Guiscarda, 1966; Nicola Misasi, L’assedio di Amantea, Napoli, tip. Bideri, 1941; Antonio Rotondo, Memoria storica sulla rivoluzione antinapoleonica dei calabresi,  Cosenza, Chiappetta, 1954; Gabriele Turchi, Storia di Amantea (dalle origini alla fine del secolo XIX), Cosenza, Fasano, 1981; Pietro Calà Ulloa, Della sollevazione delle Calabrie contro a’ stranieri, Roma, tip. B. Morini, 1871; Vittorio Visalli, I calabresi nel risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862, Vol. I, Torino, tip. Tarizzo e figlio, s.d.

Sui giacobini e i sanfedisti cfr. Umberto Caldora Umberto, Fra Patrioti e briganti, Bari, Adriatica Editrice, 1974; Gaetano Cingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799, Messina-Firenze, D’Anna, 1957. Sul decennio francese cfr. Umberto Caldora, Calabria napoleonica,  Su Amantea alla fine del XVVI secolo cfr. Susanna Miceli, Amantea sul finire del Settecento. Uomini, natura, società, Cosenza, Due Emme, 1996.

 

 

 

 

 

Ho scritto il soggetto e la sceneggiatura del film  “La rocca di Gal gal” sulla base di una documentazione storica. Esigenze filmiche e artistiche mi hanno però costretto a non essere  rigoroso nella ricostruzione degli avvenimenti. Alcuni nomi dei protagonisti sono veri, altri inventati; certi episodi che si vedono scorrere di giorno sono accaduti di notte; alcuni personaggi presenti in alcuni fatti in realtà non c’erano; la lingua parlata non è né quella del tempo, né quella di Amantea. Piccoli dettagli che non cambiano e non snaturano la storia.  Del resto non tutti  i testi e i documenti  concordano su come  siano andate veramente le cose.

Ringrazio gli impiegati della Biblioteca Civica, della Biblioteca Nazionale e dell'Archivio di Stato di Cosenza. Un ringraziamento anche a tutti coloro che mi hanno aiutato nella ricerca e in particolare a Cornelia Golletti, Giacinto Cortese, Giuseppe Marchese e Jusi Maggiorino.

 

La traduzione dei testi in francese è stata curata da Tiziana Donati e quella  in inglese da Serafina Lina Filice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quarta di copertina.

 

Sono passati duecento anni dall’assedio di Amantea. “La rocca di Gal gal” è un film celebrativo e di approfondimento storico. I protagonisti, guardando nella macchina da presa, raccontano come vivevano l’assedio, ma discutono anche di questioni politiche, sociali e  religiose.

Ci sono alcuni che sostengono di combattere per instaurare la libertà e altri per opprimerla, chi  per rovesciare i  re e  chi invece per mantenerli sul trono. Alcuni dicono di  battersi in nome della fede  in Dio e della corona, altri in nome della  fede per la libertà e per l’umanità. Come in ogni guerra civile lo scontro sembra assumere un carattere divino, una guerra di religione e la violenza si esprime spesso  in uccisioni efferate e rituali.

Gli assedi  non sono fatti solo di attacchi e battaglie che sembrano sottrarsi alla ragione, ma anche di lunghi ozi durante i quali la gente parla e pensa. In oltre quaranta giorni di accerchiamento francesi, guardie civiche, borboni, giacobini, inglesi, massisti, preti, briganti, nobili e popolani  hanno molto tempo per riflettere e  molti  guardano criticamente a quello che sta accadendo e a quello che stanno facendo.

Durante i quaranta giorni assediati e assediatori  aspettano e l’attesa col passare del tempo diventa disperazione. La guerra è soprattutto paura, malattie, stanchezza, fame e sete. Come accade sempre in ogni lungo assedio alla fine sono tutti  stremati  e  sconfitti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giovanni Sole (Cosenza, 1953), insegna Antropologia Religiosa e Antropologia Culturale e Visiva presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria.

Da tempo si occupa del rapporto tra cinema, storia e antropologia, scrivendo saggi (Trentacinque millimetri di terra. La Calabria nel cinema etnografico, 1992; La Calabria nel cinema degli anni cinquanta, 1999) e sceneggiature (La partita di pallone, 1995; I patrioti, 1995; Fate e transistors, 1999; Il cavaliere crociato e il vecchio pastore. Dialogo tra lo spirito e la materia, 2001; L’ultimo fotogramma, 2002; La terra dei palloni. Storia di un immigrato - Peperoncini nella nebbia. Storia di un emigrato, 2004). Come regista ha girato inoltre cortometraggi (Spaventapasseri, 1992, La giornata di Youssef, 1998; La lezione, 2000; Il gioco della settimana, 2001; Il canto dei patrioti, 2001) e lungometraggi (Zughi zughi,1991; Francisco de Paula, 1993; Fate e transistors, 2004).