VIBO VALENTIA

                                          VIBO VALENTIA                              

                                                                                     

 

Il nome deriva dall’antica Vibona e da Valentia, appellativo che assunse in età romana (192 a.C.)

Dopo la distruzione ad opera dei saraceni, nel 1235 la città venne riedificata per volere di Federico II col nome di Monteleone. FedericoII fece edificare un castello, costruito probabilmente, sul luogo dell’acropoli di Hipponion, con materiali di spoglio di antichi edifici classici.                                                                              

                                               

Secondo la leggenda fu il conte Ruggero a cambiare il nome latino di Vibo Valentia in Monteleone, a causa dell’altopiano che la racchiude e del leone rampante emblema della dinastia dei Normanni; tra il 1233 e il 1237 Federico II volle incrementare la popolazione della città riunendovi gente dai vari borghi e dalle campagne per creare un vero nucleo urbano in una zona che aveva bisogno di essere di nuovo civilizzata.

La leggenda ha anche tramandato il ricordo di un ebreo, Giacomo Francigena che, dopo aver acquistato terre nel contado di Monteleone, si fece battezzare col nome di Pietro, abbracciando la carriera militare e divenendo cavaliere. Durante le vicende di Corradino di Svevia, immortalato nei versi di Dante, Pietro riunì dei soldati per sedare le rivolte di Nicotera e Seminara che si erano ribellate a Carlo d'Angiò affiancando la causa degli Hohenstaufen; la capacità militare del cavaliere ebbe la meglio sui rivoltosi che furono condannati a pagare 136 once d'oro a Pietro come indennizzo dei danni di guerra.

                                                                  

Monteleone fu capoluogo della Calabria Ulteriore durante la conquista napoleonica, periodo in cui la città crebbe e si abbellì con la costruzione di nuovi palazzi e l'annessione degli antichi edifici religiosi.

 

Hipponion, la città di Persefone, centro di gruppi orfici. Demetra fu la dea della terra, non della Terra come elemento, ma la dea dei campi lavorati, il nume tutelare degli agricoltori. Dalle sue nozze nacquero Plutos, il dio delle provviste abbondanti e Persefone, rapita da Ades il dio degli inferi e costretta a vivere sottoterra per quattro mesi all'anno. Le feste dedicate a Demetra furono celebrate esclusivamente dalle donne e caratterizzate da riti magici destinati ad assicurare la fertilità dei campi. Persefone fu la divinità più importante della città di Locri e della sua colonia Hipponion ed è probabile che ciò sia dovuto sia alla forte economia agricola che affiancava le attività commerciali della città, che alla importante funzione sociale svolta dalle donne all'interno della comunità locrese. Intorno ai santuari di Persefone si raccoglieva una gran moltitudine di gente che faceva offerte e sacrifici alla divinità, lasciando testimonianza della propria devozione oggetti votivi come le pinakes, tavolette dì terracotta in cui era rappresentata la dea accanto al suo sposo.

«Felice chi tra gli uomini che vivono sulla terra

ha visto queste cose segrete;

chi invece è rimasto non iniziato ai misteri,

chi ne è rimasto privo non avrà la stessa sorte

nella oscura tenebra dell'Ade».

Con queste parole un inno misterico esaltava il valore di purificazione dei rituali che si svolgevano in onore di Demetra e sua figlia Persefone.

«Solo per noi il sole brilla con lieta luce,

per quanti siamo stati iniziati

e abbiamo condotto uno stile di vita pio

e verso gli stranieri e verso qualunque dei cittadini».

I riti legati alle dee avevano il massimo della loro espressione nella celebrazione dei misteri di Eleusi. Essendo pratiche a carattere fortemente segreto e iniziatico se ne hanno poche testimoniare e quelle giunte fino a noi, sono opera di autori cristiani che hanno parlato dei misteri sottolineando soprattutto le particolarità scabrose di alcuni riti a carattere orgiastico. I culti di Demetra-Persefone sono stati spesso legati alle comunità orfiche, sia perché essi avevano in comune il carattere segreto dei riti, sia perché tutte le pratiche misteriche nascevano da un'esigenza di purificazione e di rigenerazione in vista di una possibile salvezza. Gli iniziati di Eleusi, come i gruppi degli orfici, ricercavano un destino di purezza che potesse riservare nell'Ade una sorte felice accanto alle porte del re degli Inferi: gli studiosi si sono spesso chiesti se questa purezza degli adepti fosse solo rituale e non etica, ma è probabile che le due idee fossero in qualche modo connesse, visto che gli antichi testi parlano di empietà nel caso dì violazione sia alle leggi morali che a quelle rituali.

Quando Locri fondò Hipponion, l'attuale Vibo Valentia, ricercando uno sbocco sul versante tirrenico che le consentisse di avere un ruolo importante negli scambi commerciali con la madrepatria e con l'Etruria, portò nella nuova città i suoi ordinamenti giuridici e le sue credenze. La sua fondazione si fa tradizionalmente risalire alla fine del VII secolo a.C., data confermata dai ritrovamenti archeologici degli ultimi anni: già nei primi anni del Novecento vennero riportati alla luce la poderosa cinta muraria (opera in grossi blocchi di tufo a struttura isodoma con tecnica a sacco a doppia cortina), tre torrioni semicircolari, i resti di un tempio dorico periptero in antis (VI -V secolo a.C.) e le fondamenta di due templi minori. Posta a presidio su un'alta collina, Hipponion controllava il golfo di Sant'Eufemia (nell'antichità chiamato anche golfo di Hipponion) e le vaste campagne del Poro; col tempo la sua ricchezza e il suo spirito di indipendenza la portarono, nel 422 a.C. a scendere in lotta contro la madrepatria. Gli ultimi scavi archeologici hanno dato risultati assai interessanti sull'esistenza delle pratiche misteriche ad Hipponion. In località Cofino, una collinetta posta lungo il percorso delle mura e da cui si gode uno splendido panorama, sono state scoperte delle fosse votive connesse a un santuario che attestano la presenza del culto delle divinità degli Inferi e soprattutto una minuscola laminetta aurea con incisioni rituali. La laminetta, proveniente dagli scavi delle necropoli occidentali di località Piercastello-Lacquari, è custodita presso il Museo Archeologico Statale Vito Capialbi che ha sede nelle sale del castello normanno-svevo e rappresenta uno fra i maggiori documenti sull’Orfismo.

 

La grotta di San Leoluca. Nelle campagne della Frazione Vena Superiore sono i ruderi del Monastero in cui San Leoluca, Patrono di Vibo Valentia, visse per sei anni e in cui, secondo la tradizione, mori (1 marzo 995). Inoltre vi è una grotta di vaste dimensioni, forse Chiesa-Grotta Basiliana, dove il Santo si raccoglieva in preghiera.

 

Tradizioni fra sacro e profano. Nonostante molto sia sparito, alcune tradizioni resistono tenacemente, tramandate di generazione in generazione. I momenti più solenni sono quelli legati ai riti pasquali. Le Chiese allestiscono i Sepolcri che, la sera del Giovedì Santo, ricevono il pellegrinaggio di migliaia di vibonesi. La tradizione vuole che se ne visitino in numero dispari. Il giorno del Venerdì Santo, dalla Chiesa dei Rosario, escono i "Vari" che raccontano della Passione o Morte di Cristo, Venerdì notte la Processione dell'Addolorata, fra le più suggestive: la statua della Desolata esce dalla Chiesa di San Giuseppe e percorre le strade della città seguita da un'enorme massa di fedeli. Ancora è l'uso di esporre sui davanzali delle finestre lumi o ceri ad illuminare il passaggio della Madonna. Domenica è il giorno dell'"Affruntata": tra due ali stipatissime di folla la Madonna e San Giovanni vanno alla ricerca del Cristo Risorto, il momento di maggiore tensione è dato dall'incontro tra la Madonna e il Cristo, quindi le tre Statue vengono portate in processione per le vie del paese. Al sacro si accompagna il profano: dall'andamento dell'"Affruntata" si traggono auspici per l'anno in corso, se la statua della Madonna durante la sua corsa avesse qualche inclinazione sarebbe cattivo presagio.   Nella notte di Pasqua, in Piazza San Leoluca si svolge il rito della "Cappuccina", che consiste nella "Svelata" della campana del Duomo, precipitata a seguito del terremoto del 1783.   Nella notte di Natale la tradizione vuole che la tavola venga lasciata imbandita affinché le anime dei morti possano partecipare al cenone.

Erbe e fiori. La cultura popolare ha sempre cercato nella natura i segni e i simboli a riferimento di accadimenti ritualizzati e storicizzati. I contadini della provincia di Vibo Valentia, ancor oggi, nel periodo quaresimale, vanno alla ricerca di erbe di campo: Junci, cicuta, picciunarra, finocchju servaggiu... Nomi dialettali di erbe per preparare, insieme ai fagioli, gustose minestre.

Il rapporto con la natura continua nel simbolismo più profondo e antico dei fiori di Calabria. In provincia di Vibo Valentia si raccolgono minuscoli fiorellini selvatici chiamati pediceji du Signuri (piedi di Gesù). Il fiore, piccolissimo, è bianco con una macchiolina rosso sangue situata proprio in corrispondenza della ferita provocata dai chiodi della crocifissione. Questo fiore viene raccolto, seccato, riposto tra foglietti di carta, nel portafogli, tra le banconote, tra le pagine di un vangelo, usato per protezione cristiana ma anche come prezioso portafortuna. Altri fiori di questo periodo sono l'acetusella, che ricorda con il suo sapore acidulo l'aceto dato a Gesù sulla Croce; la passiflora (o fiore della passione) dove sono presenti le simbologie della crocifissione: i chiodi, il martello, la corona di spine, il colore viola, il bianco, il profumo amaro. Il fiore di San Giuseppe: il colore dei suoi petali, tra il viola e il magenta, richiama ai colori della passione, alle stoffe violacee con le quali si coprivano le immagini dei santi, quadri, statue, icone in lutto, nascosti da drappi viola per la morte di Gesù Cristo.

 

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